mercoledì 20 settembre 2006
E'   cosa assai comune e diffusa tra gli uomini intendere, prevedere, conoscere e profetare le sventure altrui. Ma quanto è raro riuscire a profetare,  conoscere, prevedere e intendere la propria sventura.È ancor oggi una cara amica, anche se da anni vive a Boston e la incontro raramente: ho celebrato io il suo matrimonio che purtroppo si è poi dissolto. L"ho sentita nei giorni scorsi per telefono ricordare con malinconia proprio la data di quelle nozze ormai fallite nella loro fioritura successiva. Ed essendo una donna colta, rievocava con ironia la considerazione che sopra ho citato e che è desunta dal celebre romanzo Gargantua e Pantagruel di Rabelais, autore francese del "500. Quella mia amica confessava che nel giorno di settembre di quasi trent"anni fa quando s"era sposata, mai avrebbe previsto una simile sorte che invece aveva allora pronosticato per altre coppie.È vero: siamo più capaci di intuire i limiti degli altri che le nostre incapacità. Il famoso apologo delle due bisacce vale sempre. Davanti sta, ben gonfio, il sacco delle debolezze altrui, che spesso studiamo, vagliamo, soppesiamo con gusto e acutezza. Alle spalle c"è il contenitore delle nostre miserie e fragilità, opportunamente ignorato. Procediamo, così, sicuri e orgogliosi, a testa alta e non ci accorgiamo che, anche per noi come per gli altri, la strada è sassosa, si può incespicare e rovinare a terra. I quattro verbi che Rabelais elenca sono significativi: bisogna «intendere, prevedere, conoscere e profetare» non solo le vicende altrui ma anche le proprie. Ma per far questo sono necessari autocoscienza, coraggio, onestà personale.
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