La "rivoluzione cinese" di Henri Cartier-Bresson
lunedì 4 aprile 2022

Il 25 novembre 1948, dopo aver lasciato l'India, mentre si trovava a Rangoon, in Birmania (l'attuale Yangon, nel Myanmar), Henri Cartier-Bresson (1908-2004) ricevette un telegramma dalla Magnum - l'agenzia che lui stesso aveva fondato l'anno prima insieme a Robert Capa e altri illuminati e rivoluzionari fotografi - in cui lo si esortava a recarsi, su incarico della rivista Life, a Pechino, già circondata dalle truppe comuniste, la cui caduta appariva ormai imminente. Un reportage sugli «ultimi giorni di Pechino» e del governo nazionalista di Chiang Kai-shek, minacciato dall'avanzata dell'Esercito Popolare di Liberazione, sotto il titolo "L'ultima volta che vedemmo Peiping". Nel telegramma anche una lista dettagliata di soggetti da riprendere. Cartier-Bresson arrivò a Pechino il 3 dicembre, intenzionato a starci un paio di settimane. Invece il pioniere del fotogiornalismo dovette rimanere in Cina per dieci mesi, percorrendo uno straordinario tour per l'impero. Da Shanghai dove si incontrò con la moglie Ratna, partì alla volta di Qingdao (5 febbraio -18 marzo) per raccontare le truppe comuniste. Qui fu tenuto in reclusione e rimandato indietro. Il suo viaggio ripartì da Hangzhou, dove si soffermò sui pellegrini buddisti, per continuare a Nanchino (10 aprile - 9 giugno) dove fotografò la presa della città da parte dei comunisti. Tornato a Shanghai il 10 giugno, occupata dalle truppe del nuovo regime, rimase bloccato quattro mesi fra mille restrizioni su ciò che poteva fotografare, prima di ritornare, il 23 settembre del 1949, a Hong Kong. Mesi di "ozio" e di "attesa" che gli hanno permesso di raccontare e documentare con il suo stile, la vita della gente, le paure, il disordine economico e la transizione politica fra i due opposti regimi. Un reportage che ha fatto la storia del fotogiornalismo, perché va ben oltre la «storia per immagini» tipica delle riviste americane, per restituire invece ai lettori uno spaccato autentico e pieno della società cinese. «La vita - diceva infatti Cartier-Bresson - non è fatta di storie che si possono tagliare a fette come una torta di mele. Bisogna evocare una situazione, una verità». Così ogni rullino che inviava alla Magnum era corredato da informazioni e notizie per la stesura dei testi che dovevano accompagnare le fotografie. Più di cinquemila quelle scattate in quei mesi in Cina.

Henri Cartier-Bresson. China, Beijing, 1958

Henri Cartier-Bresson. China, Beijing, 1958 - © Fondation Henri Cartier-Bresson - Magnum Photos

Questo straordinario viaggio del fotografo (che nel tempo si guadagnerà l'appellativo di "Occhio del secolo" e dell'"Istante decisivo") si potrà ripercorrere al Mudec Photo, in via Tortona a Milano, fino al 3 luglio, nella mostra "Henri Cartier-Bresson. Cina 1948-49 | 1958", a cura di Michel Frizot e Ying-Lung Su, prodotta da 24 Ore Cultura - Gruppo 24 Ore, promossa dal Comune di Milano-Cultura e realizzata grazie alla collaborazione della Fondazione Henri Cartier-Bresson. In esposizione un eccezionale corpus di fotografie e documenti di archivio del fotoreporter francese: oltre 100 stampe originali insieme a pubblicazioni di riviste d'epoca, documenti e lettere provenienti dalla collezione della Fondazione Hcb. Un excursus senza precedenti che racconta due momenti-chiave nella storia della Cina: la caduta del Kuomintang (nel viaggio 1948-1949) e il "Grande balzo in avanti" di Mao Zedong (1958), un secondo reportage a dieci anni dal primo per realizzare un «saggio fotografico sulla Cina di oggi», una rassegna delle conquiste più impressionanti e significative del regime e della Rivoluzione. Una Cina profondamente diversa da quella che aveva conosciuto. Ma densa di contraddizioni, che Cartier- Bresson riuscì a cogliere e mostrare all'Occidente, come lo sfruttamento delle risorse umane e l'onnipresenza delle milizie, sollevando interrogativi «legittimi, ma irrisolti». «Il primo, lungo soggiorno di Cartier-Bresson in Cina segna una svolta nello stile del fotografo perché - ha detto Francois Hébel, direttore della Fondazione Henri Cartier-Bresson - univa per la prima volta lo stile iconico, più poetico e distaccato che aveva caratterizzato la sua fotografia fino a quel momento, all'esigenza di essere dentro la storia». Così molte di queste immagini sono tuttora tra le più famose nella storia della fotografia.

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