giovedì 24 agosto 2017
Si sa che Dostoevskij pur essendo profondamente credente andava poco in chiesa e non amava i preti: tutta la sua attenzione religiosa era focalizzata sulla figura di Cristo. E di lui parlava, oltre che di letteratura, nelle conversazioni che aveva col ventunenne procuratore di Stato di Semipalatinsk, in Siberia, dove era stato mandato nel 1854 dopo quattro anni di lavori forzati nella fortezza di Omsk. In quegli anni gli esiliati in Siberia erano circa 200mila. In cambio di queste amichevoli chiacchierate, che alleviavano l'isolamento forzato dello scrittore, il giovane gli prestava alcuni libri. Uno in particolare attirò la curiosità, e a poco a poco lo sdegno, di Dostoevskij: le Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel. In quelle Lezioni tenute all'Università di Berlino fra il 1822 e il 1831, il pensatore prussiano delimita severamente i Paesi e i popoli che possono aver a che fare con la storia, che possono condizionarla e non solo subirla. E lascia fuori innanzitutto la Siberia.
Cominciando a parlare dell'Asia scrive infatti: «Per prima cosa dobbiamo escludere il declivio settentrionale: la Siberia. Questo declivio, che digrada dalle catene montuose dell'Altaj, con i suoi bei fiumi che si gettano nell'oceano settentrionale, non ci interessa qui in nessun modo, poiché la zona nordica giace fuori dalla storia». Più avanti Hegel scarta pure l'Africa dalla possibilità di influenzare il corso della storia, e lo farà in nome della razionalità. Si può immaginare la reazione furibonda di Dostoevskij, che allora stava lavorando alle Memorie di una casa morta, resoconto del periodo della prigionia in cui intendeva proprio dare voce ai condannati e ai perseguitati. A poco a poco le Memorie diventano una vera e propria "Bibbia della ribellione".
A questo senso di rivolta in nome degli espulsi dalla storia è dedicato uno smilzo e pungente libretto tradotto in Italia col titolo divertente ma efficace Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere (il melangolo 2009), un tentativo di riabilitare addirittura la teologia della storia da parte del critico letterario ungherese Laszlo Foldenyi, che dà voce proprio all'autore dei Fratelli Karamazov: «L'esilio dalla storia deve aver maturato in Dostoevskij la fede nei miracoli, ma anche la percezione che l'ordine moderno del mondo obbedisce a una legge crudele. La storia rivela la propria essenza a quelli che prima ha escluso da sé». Il tentativo di dare un senso logico e razionale alla storia degli uomini, dei popoli e delle civiltà toglie il respiro a Dostoevskij che in quegli anni aveva vissuto la condizione dell'inferno.
Quel Dostoevskij che farà dire al protagonista delle Memorie del sottosuolo: «Tutto si può dire della storia fuorché sia uno spettacolo ragionevole». È il dio del progresso quello in cui crede Hegel, che vede nel processo storico un avanzamento lineare da cui ovviamente sono banditi i reietti. Nelle Memorie come nei suoi più grandi romanzi invece lo scrittore russo dà voce proprio ai dannati, senza però mai dimenticare la speranza, la possibilità di una redenzione. È una visione radicalmente differente della storia, cui Dostoevskij (e con lui Foldenyi) non fa sconti: una storia da cui inutilmente la cultura occidentale cerca di rimuovere la morte, la sofferenza, la sacralità dell'esistenza e l'attesa di una redenzione possibile.
Al termine del libro ricorda Foldenyi come ironicamente il regista Luis Buñuel una volta ha detto che la responsabilità della perdita della fede nella società contemporanea era da attribuire alla predicazione cristiana, che per secoli era stata incentrata sulle paure dell'inferno invece che sulle possibilità del bene. E senza dubbio c'è del vero in tutto questo. Ma secondo Buñuel la Chiesa avrebbe talmente esagerato nel raccontare e minacciare gli orrori dell'inferno che la gente ha finito per non credervi più. Dopo il '900 e i primi decenni del Duemila, probabilmente tutti ci rendiamo conto che, a proposito del male assoluto e dell'inferno, la realtà invece ha superato l'immaginazione.
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