domenica 25 febbraio 2007
Il debole non è capace di perdonare. Il perdono è una qualità dei forti. Volete mettere uno che entra in scena col collo turgido, le gote arrossate e il tremito in corpo e si mette a inveire, a insultare, ad affettare uno sdegno omerico e un disprezzo assoluto? Tutti sono incuriositi, si sentono forse anche un po' in colpa e in fondo sono convinti che abbia ragione. È, questo, un non raro quadretto televisivo che assegna la palma del diritto a chi sembra più forte, a chi grida di più e si ammanta di fermezza. Contro questo luogo comune purtroppo dominante si levano le parole di Gandhi che oggi abbiamo voluto proporre. Egli va al di là della superficie e scava nella profondità dell'anima e della verità, operando indirettamente una distinzione tra due realtà che spesso noi confondiamo come se fossero dei sinonimi: la forza e la fortezza. La prima è un'energia primitiva fisica o psichica che può servire solo se calibrata, altrimenti è come il fiume in piena che tutto demolisce. La fortezza è, invece, una virtù cardinale che segnala un animo coerente e magnanimo. Chi esercita questa dote non è
meschino, non recrimina, non si vendica, non è subdolo e gretto, ma perdona, comprende, è generoso, pietoso e longanime. Questa grandezza di cuore e di mente è dalla persona superficiale e mediocre scambiata per debolezza o arrendevolezza, mentre è segno di nobiltà d'animo e di dignità. Uno scrittore inglese del '700 caro al nostro Foscolo, Laurence Sterne, nel suo capolavoro Vita e opinioni di Tristram Sandy dichiarava: «Solo i coraggiosi sanno perdonare. I vigliacchi non perdonano mai, non è nella loro natura». Proprio l'esatto contrario della supponenza a cui lo stile attuale ci sta abituando.
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