venerdì 20 gennaio 2006
Era una sera solitaria. Leggevo un libro a lungo, finché il mio cuore divenne arido. Mi pareva che la bellezza fosse una cosa foggiata da mercanti di parole. Stanco, chiusi il libro e spensi la candela. In un istante la stanza fu inondata dalla luce della luna. Mi costa un po' proporre questa citazione perché, se devo essere sincero, per me leggere nella notte, avvolto da un silenzio altissimo, è un'esperienza esaltante che purtroppo mi viene a mancare non di rado, costretto come sono ai viaggi e alla dispersione di stanze estranee, anche se molto ospitali. Eppure quello che scrive Tagore, il poeta indiano tanto caro anche all'Occidente, morto ottantenne a Calcutta nel 1941, contiene una verità che vale anche per me e che può estendersi al di là del tema specifico della lettura (pratica, per altro, non molto diffusa in Italia). È, infatti, l'appello a non accontentarsi delle mediazioni, ma a scendere in campo, nell'immenso e grandioso orizzonte del mondo e della vita. Ci sono persone che scambiano per realtà le illusioni che la televisione imbandisce loro a pranzo e a cena. C'è chi immagina che la verità sia solo quella contenuta nella sua scatola cranica e nei suoi ragionamenti. Ci sono quelli che hanno sempre bisogno di un grembo protettivo, fatto di persone che condividono le loro idee, che assomigliano a loro e non li contraddicono mai. Mi ha sempre colpito un verso forte dell'Assassinio nella Cattedrale di Eliot: «La razza umana non può sopportare molta realtà». Ecco, allora, l'invito di Tagore a lasciar irrompere la luce della luna o del sole che ti svela quanto piccola e polverosa è la tua stanza e quanto infinito è il mondo e il suo mistero. Allargare la mente e il cuore, andando incontro agli altri: solo così il respiro dell'anima si dilata.
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