giovedì 20 aprile 2017
«Si imparerà sempre di più sulla vita dell'uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica»: questa celebre frase del linguista Noam Chomsky ben si adatta alla funzione che attribuisce alla letteratura lo scrittore ceco Milan Kundera descritta nel libro L'arte del romanzo (Adelphi 1988). In buona sostanza per l'autore dell'Insostenibile leggerezza dell'essere e di altre importanti opere narrative questa forma particolare di espressione sorta in Europa con la modernità (Rabelais e Cervantes ne sono i capostipiti) ha saputo scandagliare meglio della filosofia e della scienza il mistero dell'uomo, della sua caduta e redenzione. Mistero che spesso risulta a volte insondabile ma che viene instancabilmente indagato, soprattutto dagli scrittori, anche dopo il famoso verdetto del filosofo Adorno per il quale era impossibile fare poesia dopo Auschwitz.
Per Kundera, emigrato in Francia nel 1975 dopo aver subito non poche censure e proibizioni sotto il regime cecoslovacco, il vero fondatore della modernità non è Cartesio ma Cervantes e mentre tutto l'itinerario del pensiero europeo dal '600 ad oggi è stata una progressiva rinuncia alla Weltanschauung, alla possibilità stessa di elaborare una visione dell'uomo e del cosmo, il romanzo non ha perso l'ambizione di scavare in profondità, a volte anche con violenza e drammaticità, la condizione umana: «Se è vero che la filosofia e le scienze hanno dimenticato l'essere dell'uomo, è tanto più evidente che con Cervantes ha preso forma una grande arte europea, che altro non è se non l'esplorazione di questo essere dimenticato». Il famoso "oblio dell'essere" di heideggeriana memoria non è mai stato fatto proprio dai grandi scrittori europei, che hanno scoperto e messo a nudo tutti i diversi aspetti dell'esistenza.
In questa avventura «lo spirito del romanzo è lo spirito della complessità». Che prenda in mano Kafka o Tolstoj, al lettore non sfugge la verità che la vicenda umana è più complicata di quanto egli possa ritenere: «L'intero romanzo non è altro che una lunga interrogazione». Ma è proprio attraverso queste domande infinite sulla solitudine, sul male e sul dolore che il romanzo trasmette all'uomo l'eterna possibilità di porsi questioni di senso circa il proprio stare al mondo. Sapendo che spesso i personaggi dei romanzi vanno oltre il processo storico: le peregrinazioni di K. o il delitto di Raskolnikov non hanno avuto davvero luogo, eppure ci svelano moltissimo su quanto l'uomo è capace di fare: «Il romanzo non indaga la storia, ma l'esistenza». Nei grandi autori poi, a partire da Rabelais, è presente spesso anche lo spirito dello humour, una delle altre caratteristiche del romanzo europeo. Scrive Kundera: «Dice un bellissimo proverbio ebraico: L'uomo pensa, Dio ride. Mi piace immaginare che Rabelais abbia udito un giorno la risata di Dio e che sia nata così l'idea del primo grande romanzo europeo. Mi diverte pensare che l'arte del romanzo sia venuta al mondo come eco della risata di Dio».
Certo, lo scrittore ceco trapiantato a Parigi che nella sua opera mostra di prediligere la forma del "romanzo-saggio" è ben consapevole che quello del romanzo è anche il mondo delle mille verità («La sola certezza e la saggezza dell'incertezza»), ma al tempo stesso sa che si tratta di un mondo illimitato, che non si pone confini. Proprio per questo è incompatibile con i regimi totalitari. Ma si trova in difficoltà anche nell'epoca odierna dominata dai mass media, così conformisti e semplificatori, pieni di luoghi comuni, effimeri e mai capaci di profondità. Essi rappresentano quella che Kundera chiama nell'ultimo suo libro La festa dell'insignificanza, ove tutto è frutto della propria rappresentazione e non esiste nulla di oggettivo. Il che può essere la premessa per una nuova dittatura, magari non dal volto hitleriano o staliniano. Per questo «il romanzo non può vivere in pace con lo spirito del nostro tempo».
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