sabato 25 aprile 2020
Nel settembre del 1981 il termine “globalizzazione” non era ancora entrato nel lessico comune, ma lo si trovava, qualche volta, nei testi di macroeconomia. La formidabile ascesa della Borsa, che non si sarebbe più arrestata per quasi vent'anni, sarebbe iniziata solo nel gennaio successivo. La parola d'ordine sarebbe diventata deregulation, deregolamentazione, e nel suo nome legioni di yuppies dai colletti impeccabilmente inamidati e le larghe bretelle colorate avrebbero sancito in un decennio di ubriacatura finanziaria il divorzio definitivo tra produzione e ricchezza, rendendo il profitto indipendente dal lavoro.
Ma quel tempo, raccontato con crudo realismo da film come Wall Street o romanzi come American Psycho, ancora non era nemmeno iniziato, in quel settembre di quasi quarant'anni fa. E quando, il 14 di quel mese, Giovanni Paolo II pubblicò la Laborem execersens, la sua straordinaria carica rivoluzionaria non fu colta pienamente, né forse sarebbe stato possibile. Sintetizzata in quella frase, «il lavoro è per l'uomo, e non l'uomo per il lavoro», che condensa la relazione indissolubile che deve – dovrebbe – sempre esistere tra economia, ordinamento sociale e diritti inviolabili della persona. Ognuno, secondo Giovanni Paolo II, ha diritto al lavoro in quanto uomo, e a una giusta remunerazione che è «quella sufficiente per fondare e mantenere degnamente una famiglia e per assicurarne il futuro». E se questa non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe intervenire «tramite... provvedimenti sociali, come assegni familiari o contributi alla madre che si dedica esclusivamente alla famiglia».
Questa visione del lavoro è diventato un cardine della Dottrina sociale della Chiesa, ispirandone tutti gli sviluppi. Nella Caritas in veritate del 2009, proprio citando il testo di papa Wojtyla, Benedetto XVI diceva che «i poveri in molti casi sono il risultato della violazione della dignità del lavoro umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione), sia perché vengono svalutati “i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia”. Perciò, già il 1° maggio del 2000 il mio predecessore Giovanni Paolo II lanciò un appello per “una coalizione mondiale in favore del lavoro decente”», dove la parola “decente” «applicata al lavoro... significa un lavoro che sia l'espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna... un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli».
Non è possibile mai, insomma, scindere l'idea del lavoro da quella del giusto salario. Ed è proprio questo che a Pasqua papa Francesco ha ribadito con forza nella sua lettera ai Movimenti popolari, quando prendendo spunto dall'attuale pandemia afferma che «voi, lavoratori precari, indipendenti, del settore informale o dell'economia popolare, non avete uno stipendio stabile per resistere a questo momento... e la quarantena vi risulta insopportabile. Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti». Parla degli esclusi della globalizzazione, centinaia di milioni di dimenticati. E parla, nella stessa linea dei suoi predecessori, di lavoro, un lavoro decente e giustamente retribuito, non di elemosina né di sussidi. Potrebbe essere questo il modo per trasformare i sacrifici imposti dal coronavirus in una nuova opportunità. Per riprendere finalmente, come scrive il Papa, «il controllo della nostra vita».
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