mercoledì 13 settembre 2006
Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia e di gratitudine, di aspettazione" La massima sventura è la solitudine, tant"è vero che il supremo conforto - la religione - consiste nel trovare una compagnia che non inganna. La preghiera è uno sfogo come con un amico.Sto leggendo il libro intenso che un vescovo, Giuseppe Molinari, ha scritto sulla ricerca religiosa di Cesare Pavese ("O Tu, abbi pietà", ed. Ancora): ne rimango coinvolto perché ho sempre amato questo scrittore dall"esistenza approdata al tragico estuario del suicidio, ma pervasa da un forte anelito verso il mistero e il divino. Scelgo alcune citazioni incastonate nel volume dell"arcivescovo dell"Aquila: sono conosciute ma meritano di essere riproposte. Due sono le realtà prese di mira; forse sono solo due volti antitetici ma complementari della stessa esperienza umana. Da un lato c"è l"amarezza della solitudine, una sorta di prigione che tanti non riescono a varcare, anche perché al di là non c"è nessuna mano e nessuna presenza. Per questo, Pavese scriveva che «solo la carità è rispettabile. Cristo e Dostoevskij, tutto il resto sono balle». Anche quel suo celebre verso: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi» era l"estrema attesa di uno sguardo d"amore, sguardo che purtroppo in quel caldo giorno d"agosto del 1950, il giorno del suicidio, gli è mancato. Ma, d"altro lato, c"è un profilo sorprendente che la sofferenza rivela ed è ciò che lo scrittore esprime con un"immagine forte, «lo sgorgo di divinità». Il dolore è come uno strato di terra e di pietrisco che ha sotto il fremito e la pressione dell"acqua: basta saper attendere con coraggio, ed ecco erompere la luce, la vita e Dio stesso.
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