mercoledì 10 ottobre 2007
Nacqui cieca. Fui la più felice delle donne, come moglie, madre, massaia, occupandomi dei miei cari e rendendo la mia casa un luogo d'ordine e di ospitalità generosa. Giravo, infatti, per le stanze e per il giardino con un istinto infallibile come la vita, quasi che avessi gli occhi sulla punta delle dita.
Bellissima l'immagine finale che delinea la straordinaria capacità di molti ciechi: essi hanno gli occhi sulla punta delle dita. Ho anch'io conoscenti non vedenti, come si suol dire con un eufemismo poco felice: in realtà, essi sono sia vedenti sia veggenti perché, attraverso gli altri sensi, riescono a vedere e, nel loro buio rispetto all'esteriorità delle cose immediatamente visibili, sanno essere più profondi di noi nel capire e nell'ascoltare, divenendo appunto "veggenti", cioè figure di forte spiritualità. Il pensiero va, ad esempio, ai non pochi pianisti, organisti, suonatori ciechi che estraggono la musica da se stessi più che dagli spartiti.
Ma il testo, che sopra ho desunto dalla celebre Antologia di Spoon River del poeta americano Edgar Lee Masters (1869-1950), aggiunge
un altro elemento. Questa donna, della quale lo scrittore cita l'ideale epitaffio, racconta con gioia la sua microstoria, ammonendoci che non è necessario essere come la modella perfetta della pubblicità per realizzare in pienezza la vita. Anzi, ci sono persone sane e belle alle quali manca una sola cosa e quindi tutto, cioè l'anima, l'interiorità, il pensiero. E ci sono persone disabili che sanno godere e gioire, bevendo ogni istante della loro esistenza. Ecco perché la cieca di quel villaggio americano merita un'epigramma tombale così festoso più di tanti sani e "normali".
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