giovedì 16 giugno 2005
La virtù non è preclusa ad alcuno, è accessibile a tutti, accoglie tutti, chiama tutti, liberi, liberti, schiavi, re, esuli. Non sceglie la casa o il censo, si accontenta dell'uomo nudo.
Sto elaborando per una rivista una serie di articoli sulle virtù teologali e cardinali e m'imbatto non solo in testi classici dedicati a questo tema ma anche in molte e interessanti riflessioni di pensatori contemporanei. Praticamente sbeffeggiata a livello pratico, la virtù torna quindi a provocare almeno le menti e, si spera, le coscienze. Anche perché, come scriveva il celebre architetto quattrocentesco Leon Battista Alberti, «solo è senza virtù chi non la vuole». Io, invece, sono risalito oggi a un maestro pagano del passato, così caro ai cristiani da esser diventato il soggetto di un più o meno apocrifo epistolario con s. Paolo, il filosofo latino Seneca (I sec. d.C.).La sua considerazione, tratta dall'opera De beneficiis, è limpida: la virtù non è frutto di cultura, non è appannaggio di uno stato sociale, non è privilegio di classe; essa appartiene in dote all'«uomo nudo», ossia alla creatura umana nella sua dignità sorgiva. La virtù è, come la legge naturale, un seme deposto nella coscienza: sta alla singola persona farlo crescere, fiorire e fruttificare. Anzi, spesso l'apparenza esteriore, la ricchezza, la stessa cultura, il successo e il fascino militano contro la virtù, quasi soffocandola. Un altro grande maestro del passato, il cinese Confucio, non esitava ad ammonire che «belle parole e un aspetto insinuante sono raramente associati con l'autentica virtù». Ecco perché è necessaria la semplicità, la "nudità" interiore per essere veramente virtuosi.
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