venerdì 18 novembre 2011
Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in sé stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore… In simili individui non ci sarebbe più nulla di rimediabile: è questo che si indica con la parola “inferno”.

«Questa è la mia idea dell'inferno: uno se ne sta seduto là, completamente abbandonato da Dio, e sente che non può più amare, mai più e che mai più incontrerà un'altra persona, per tutta l'eternità». Così scriveva al teologo Karl Rahner la romanziera tedesca Luise Rinser, echeggiando le parole di un altro scrittore, Georges Bernanos: «L'inferno è non amare più», che a sua volta raccoglieva l'idea del suo connazionale Victor Hugo secondo il quale «l'inferno è tutto in una parola, solitudine». Forse per questo si potrebbe dire — sempre con Bernanos — che non si deve parlare del «fuoco dell'inferno» perché «l'inferno è freddo», come ogni luogo senza la luce e il calore dell'amore.
Si dice che i predicatori di oggi, rispetto ai loro colleghi del passato, non sono inclini a mettere a tema i cosiddetti “Novissimi”. Non così Benedetto XVI che li ha affrontati nella sua enciclica Spe salvi (2007) alla quale abbiamo attinto per un'efficace rappresentazione dell'inferno come stato interiore che può già crearsi dentro la vita e l'anima di una persona in vita. Due sono i sintomi inequivocabili. Innanzitutto spegnere ogni ricerca della verità e, quindi, ogni cammino verso il mistero, il trascendente, il divino. Segue a ruota proprio la chiusura all'amore che raggela ogni spiritualità profonda. Solo una piccola nota di commento. Il Papa fa balenare la possibilità che l'inferno inizi già ora, qui nella storia. Il filosofo americano William James (1842-1910) l'aveva già intuito: «L'inferno di cui parla la teologia non è peggiore di quello che creiamo a noi stessi in questo mondo».
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