giovedì 19 dicembre 2002
Quando l'incredulità diventa una fede, è meno ragionevole di una religione. L'incredulità ha i suoi entusiasti, come la superstizione. Ho messo insieme due frasi di autori diversi, entrambi però francesi. Le avevo annotate tempo fa, non so più dopo quale lettura. In realtà la prima nasce dal Diario, scritto a due mani, dei fratelli Edmond e Jules Goncourt, autori dell'Ottocento, una vera miniera di ritratti, aneddoti, impressioni, riflessioni, testimonianze. La seconda frase è,
invece, tratta dalla raccolta dei Pensieri diversi di Luc de Clapiers, marchese di Vauvenargues (1715-1747), moralista molto attento ai valori umani e all'impegno personale, nonostante fosse gravemente malato (visse solo poco più di trent'anni). L'idea è, comunque, parallela in entrambe le citazioni. I bigotti non sono solo una prerogativa delle religioni. Lo
zelo che conduce all'eccesso alligna anche nel terreno dell'incredulità. Anzi, in qualche caso, raggiunge una forma di dogmatismo isterico, sorprendente in chi vuole disfarsi di ogni dogma. Ma la frase dei Goncourt introduce un aspetto ulteriore. Lo esprime bene un altro scrittore, il cattolico inglese Chesterton, quando osservava che, dopo aver rigettato la religione, i cosiddetti "increduli" non è che non credano più in nulla, in realtà spesso credono a tutto. Basti solo pensare al successo di maghi, chiromanti, santoni e guru a cui approdano non di rado uomini e donne che non hanno più nessuna religiosità. Il credere vero è un esercizio serio e severo, come dev'esserlo anche un'incredulità sofferta e vissuta come ricerca.
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