venerdì 5 gennaio 2018
I ragazzi nelle carceri italiane sono una minoranza fra quelli che compiono reati in quanto si cerca sempre di evitare la misura estrema preferendo, quando possibile, forme di recupero alternative alla reclusione. Forse per questo motivo gli incontri che ho fatto negli istituti penitenziari per minori mi restano dentro come schegge incandescenti. Ricordo il giorno in cui scesi alla fermata della metropolitana Bisceglie a Milano e mi diressi verso il “Cesare Beccaria” accompagnato dal professore che mi aveva invitato. Restano nella mia memoria i palazzoni grigi, il groviglio della circonvallazione, quindi il portone d'entrata, gli armadietti dove riporre chiavi e cellulare. Giardini interni spogli. Celle che si aprono e richiudono. Corridoi, aule, laboratori. Poi finalmente loro: gli adolescenti davvero difficili, quelli che hanno sbagliato sul serio, i più rabbiosi. Li vedi, gli dai la mano, li guardi negli occhi e quasi stenti a crederlo. Eppure è così. Abbiamo fatto battute nel tentativo di superare la tristezza. Ho avuto la sensazione che proprio lì, nella malinconia del sedicenne uscito dai binari, crescesse un'erba nuova. Dove finisce il condizionamento sociale e inizia la nostra responsabilità? E perché le poche ore trascorse al “Beccaria” sono state per me così preziose?
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