sabato 23 luglio 2022
Quando ho iniziato a fare il giornalista, all'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, gli articoli si scrivevano sulle macchine da scrivere e le notizie dalle agenzie di stampa viaggiavano sulle telescriventi a 200 "baud" (unità di misura convenzionale). Poco più che alla metà di quello stesso decennio, letteralmente da un giorno all'altro, la velocità arrivò a 400 "baud", il doppio. Le vecchie telescriventi dovettero essere sostituite da altre in grado di reggere quella velocità, ma il problema più grande fu che un'agenzia impiegava dodici ore per trasmettere lo stesso numero di notizie che prima richiedeva ventiquattr'ore. La prima conseguenza? Cose che il giorno prima non erano considerate notizie lo diventarono, mentre i margini di verifica iniziarono ad assottigliarsi. Poi l'avvento di internet ha rivoluzionato tutto, con una progressiva ulteriore accelerazione che sembra ancora infinita.
Oggi sul terminale delle agenzie di stampa potrebbero arrivare in teoria oltre diecimila notizie ogni giorno. Quasi quattordici al minuto, impossibile leggerle tutte, impossibile leggerne anche solo i titoli. E poi ci sono soprattutto Facebook, Twitter, e tutti gli altri social network, e le tantissime testate online... Il mucchio di informazioni è tale che diventa impossibile verificarle tutte. Con due conseguenze che rendono ancora più esplosivo il quadro generale. La prima è che oggi molti pensano di poter fare a meno della meditazione giornalistica, per la possibilità che la rete offre di accedere alle fonti; cosa che, s'è vera, uccide però la pluralità dei punti di vista, essenziali in una democrazia, perché alla lunga va a finire che vincono le monoculture, ossia la conoscenza in due sole dimensioni. La seconda è che il pubblico a cui la stragrande maggioranza dei giornalisti si rivolge non è più fatto di lettori, ma di "tifosi" (di questa o quella parte politica), o della "celebrità" del momento, o dell'ultimo pettegolezzo.
Così oggi quasi tutti i giornalisti hanno abdicato al proprio ruolo, e non sanno neanche più leggere le "stringhe" dei dispacci di agenzia, ossia i codici che di ogni notizia dicono tutto, anche chi l'ha scritta. Oggi sono gli "influencer" a fare opinione, a prescindere dal loro quoziente intellettivo e da ogni deontologia.
È questo che Papa Francesco ha denunciato nel messaggio al Congresso Mondiale Signis, l'associazione mondiale cattolica per la comunicazione, in programma il prossimo agosto in Corea del Sud. Il mondo digitale, ha scritto, è spesso un «luogo di tossicità, discorsi d'odio e fake news». Una realtà che pone «gravi questioni etiche», che richiedono «un giudizio saggio e perspicace da parte dei comunicatori e di tutti coloro che si preoccupano dell'autenticità e della qualità delle relazioni umane». Per i giornalisti cattolici diventa allora una vera missione «l'educazione ai media... e il contrasto alle menzogne e alla disinformazione». Bisogna sopperire «alla necessità di aiutare le persone, soprattutto i giovani, a sviluppare un sano senso critico, imparando a distinguere la verità dalla menzogna, il giusto dallo sbagliato, il bene dal male, e ad apprezzare l'importanza di lavorare per la giustizia, la concordia sociale e il rispetto per la nostra casa comune». Avendo sempre presente che «la comunicazione non è solo una professione, ma un servizio al dialogo e alla comprensione tra individui e comunità più ampie, alla ricerca di una convivenza serena e pacifica».
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