venerdì 14 giugno 2019
Finché sappiamo raccontare (e raccontarci), sappiamo vivere. Le storie che noi raccontiamo ci portano all'ingresso della nostra tenda, nel campo aperto della parola e dell'esistenza. Mi viene in mente il meraviglioso elogio che Italo Calvino dedicò a Roland Barthes (e che potrebbe essere esteso a chiunque non rinunci a raccontare quella scompigliata esperienza che è il vivere stesso): «Tutta la sua opera consiste nel costringere l'impersonalità del meccanismo linguistico e conoscitivo a tener conto della fisicità del soggetto vivente e mortale». L'atto di narrare rompe l'impersonalità delle rappresentazioni e ci avvicina irrimediabilmente al nostro corpo vivo, questo corpo che noi sottovalutiamo con tanta facilità. È questo il senso di un bel racconto giudaico - eccolo.
C'era un maestro che aveva un suo rito perché Dio gli desse ascolto: camminava fino a un certo punto della foresta, accendeva un fuoco, recitava una preghiera, e Dio gli rispondeva. Passarono le generazioni. L'orazione fu la prima a essere dimenticata. Ma avevano ancora quel punto nella foresta e il fuoco: Dio rispondeva ugualmente. Poi ci si dimenticò del fuoco, ma rimase il luogo nella foresta in cui Dio si manifestava. Alla fine, cadde nell'oblio anche quel posto. Non c'era più memoria dell'orazione, né del fuoco, né di quel punto nella foresta. Ma c'era ancora il racconto di questa storia. E, ogni volta che essa veniva raccontata, Dio rispondeva.
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