giovedì 17 agosto 2017
Non piacerà molto agli amanti degli animali e delle piante la visione dell'aldilà preconizzata da Jacques Maritain. Per il filosofo, infatti, il paradiso che tutti desideriamo come meta è ben diverso dall'immagine che ci siamo fatti pensando al paradiso terrestre: a suo parere però «la creazione non subirà alcuna perdita perché tutto ciò – i nostri cari paesaggi verdeggianti, il diletto campionario di bestie piccole e grandi – continuerà a vivere in eterno nella memoria dei beati».
Qualcuno dunque resterà deluso per l'assenza di questa natura meravigliosa, idea che Maritain riprende da Tommaso d'Aquino, ma senza alcun dubbio il libretto da cui ho preso la citazione è davvero una chicca preziosa per chi voglia accostarsi oggi alla questione dei Novissimi. Pensatore notissimo per il suo legame con Paolo VI e per i suoi scritti sulla democrazia e sull'impegno politico dei credenti, Maritain si è cimentato infatti, e con tesi piuttosto ardite, con gli aspetti escatologici del cristianesimo nel libro Le cose del cielo (edito da Massimo nel 1996, a cura di Nora Possenti Ghiglia). E dopo aver fatto risaltare come nel corso dei secoli passati abbia prevalso una predicazione incentrata sul terrore del Giudizio finale più che sulla possibilità di salvezza, egli si rammarica «che tra i cristiani regni una estrema negligenza riguardo alla Chiesa del Cielo».
Non solo, l'autore di Umanesimo integrale tenta di raffigurarsi come sarà la vita nell'aldilà. Per lui «nulla è perduto di ciò che è stato fatto», dato che «non si può pensare che tutto ciò che è passato nello scorrere del tempo, carico di tanta bellezza, amore e infelicità, sia perduto per sempre». Non possiamo pensare che le persone risuscitate si accontentino di passeggiare per i viali del paradiso: essi sono «padroni di una natura ormai senza gemiti», con «i loro corpi gloriosi che godranno dei privilegi, impassibilità, sottigliezza, agilità, chiarezza, che la teologia enumera». Così egli vede la risurrezione dei corpi e ancora con san Tommaso crede che «il corpo dei risuscitati sarà lo stesso che avevano quaggiù, ma la sua età sarà quella dell'età perfetta dell'essere umano, cioè quella in cui ha compiuto la sua crescita e resta ancora lontana dalle porte della decrepitezza; in breve, sarà l'età della giovinezza in piena attività».
Alla fine del tempi i corpi dei dannati invece soffriranno. Leggiamo la sua descrizione: «Sono degli attivi, lavorano tutto il tempo, hanno la religione del lavoro. Costruiscono, organizzano e i loro edifici crollano, a causa delle loro divisioni e dei loro odi, ma continuano a costruire e a lavorare senza posa. Senza posa fanno della politica. La loro vita, forse, non deve essere immaginata tanto differente dalla nostra. Essi faranno delle città nell'inferno, delle torri, dei ponti, vi condurranno delle battaglie. Intraprenderanno a governare l'abisso, a ordinare il caos». Senza ovviamente riuscire in nulla in questa impresa. Anche Dino Buzzati fra l'altro in un racconto rappresenta il regno di Satana come una metropoli bloccata dal traffico.
Ma che fine poi faranno i dannati? Maritain giunge a ipotizzare una liberazione finale, che si potrà realizzare grazie alle implorazioni di pietà rivolte a Dio da parte dei salvati. «Poiché l'eternità consuma tutti i tempi, bisognerà pure che a un certo momento i luoghi bassi dell'inferno siano svuotati. Se è così, Lucifero senza dubbio sarà l'ultimo a cambiare. Ma anche per lui si pregherà, si griderà. E alla fine anche lui sarà restituito al bene. Umiliato sempre, ma umile ora». Con questo «osanna dell'inferno divino» va dato atto a Maritain, le cui tesi risalgono addirittura al 1939 e si ripresentano in corsi che egli fece ai Piccoli fratelli di Gesù di Tolosa negli anni 60 e 70, di essersi inerpicato in territori che forse solo Dante prima di lui aveva osato esplorare. E che negli anni Ottanta il teologo von Balthasar fece proprie allorché espresse la speranza che l'inferno potesse essere vuoto.
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