mercoledì 25 ottobre 2006
Mi guardavo ieri nello specchio del salotto. Il mio viso è simile a migliaia di altri visi umani, con tratti che la vita, l'eredità, le passioni hanno segnato a modo loro: questo è il casuale. Ma ciò che resta eternamente e non varierà mai è lo sguardo con la sua muta domanda, antica come il mondo: chi sono? Quante volte ci siamo guardati allo specchio, solitamente per registrare lo stato esteriore del nostro viso: una ruga in più, le occhiaie pronunciate, un segno di decadimento. Le donne (ma non solo), quando si devono truccare la faccia, si scrutano in ogni centimetro quadrato e scoprono le tracce impietose del tempo. Eppure, talora, in quel dialogo muto con noi stessi davanti allo specchio, può scattare quella «domanda antica come il mondo: chi sono?». Probabilmente, quando essa affiora, subito ci si stacca da quello sguardo e ci si rivolge altrove. La scena la evocava già s. Giacomo nella sua Lettera, quando parlava dell'«uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s'è osservato, se ne va, e subito dimentica com'era» (1, 23-24). Nel brano che abbiamo sopra citato, tratto dal romanzo Varuna (Mondadori 1953), lo scrittore francese, a me molto caro, Julien Green (1900-1998) cerca proprio di torcerci il viso per rigirarlo verso quello specchio, così da far riaffiorare quella domanda. Perché viviamo troppo spesso ignorandola e, quindi, abbandonandoci a un'esistenza superficiale,
banale, vacua e fatua. Qualche volta di più, nella solitudine d'una stanza, forse anche nel bagno al mattino o a sera, dovremmo fissarci negli occhi riflessi dallo specchio e chiederci: «Che senso ha la vita che facciamo? Le azioni, gli amori, gli odi, le speranze, le delusioni?». Le vere domande segnano la vita e le impediscono di andare alla deriva.
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