sabato 18 febbraio 2017
Ho imparato da un amico scrittore quella che sembra essere una pratica corrente, diciamo pure una bella pratica, in alcune letterature. Di fronte a una domanda, gli autori non registrano immediatamente la risposta, ma indicano una pausa che permetta di respirare, un tempo di silenzio necessario per decifrare ciò che si è appena udito o semplicemente per vivere lo stupore e lo sconcerto che tante volte ci afferra davanti alla vita che si fa vicina. Certe letterature sembrano valorizzare l'impatto esistenziale della domanda, che mai è accolta in modo meccanico, che mai ci sorprende invano. Per questo, coloriscono il testo con una quantità di puntini.
- Dove vai?
- …
- Che cosa vedi da quella finestra?
- …
- Faremo ancora in tempo?
- …
Non che le risposte non esistano. In realtà alla fine emergono. Ma questo modo di rappresentare il cammino che le domande fanno nel nostro intimo ci aiuta a guardare altrimenti alla comunicazione umana. Se non lasciamo alla domanda la possibilità di abitarci, nemmeno riusciremo a individuare la risposta che potrà illuminarla. Se non sappiamo ascoltare il silenzio del mondo, come saremo capaci di ascoltarne la parola?
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