martedì 13 marzo 2018
Fra i grandi racconti cechoviani, Il monaco nero è quello che, più di tutti, pone il problema del bisogno di riconoscimento. Il professor Kòvrin, dopo una vita di affermazioni e successi, attraversa un periodo di crisi nel quale tutte le sue certezze sembrano sul punto di sbriciolarsi. Da solo non riesce a cavarsela. Allora pensa di vedere un misterioso monaco che lo rassicura, facendogli credere che lui è un eletto del Signore, una specie di genio umano che, invece di cadere nella depressione, come sta facendo, dovrebbe andar fiero di se stesso. In verità questo monaco nero è un'allucinazione. Kovrin, per quanti sforzi faccia, non riesce a sottrarsi al suo dominio, al punto tale da restarvi invischiato. Tutta la sua vita andrà a rotoli. La donna che ha amato, arriverà a maledirlo. L'ultima, che di lui si prende cura, potrà soltanto assisterlo al capezzale. Il monaco nero — tutti rischiamo di averne uno — lascia filtrare una critica spietata nei confronti della pura ambizione. Non siamo di fronte al tema del sosia, o dell'alter ego. Lo strano personaggio che ogni tanto compare davanti a Kovrin lusingandolo, riempiendolo di elogi, è una semplice visione. Se l'uomo non riesce ad accettare i limiti che la realtà gli impone, può arrivare a inventarsi una vita artificiale, parallela.
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