Il grazie (con lacrime) che fa di un campione un uomo
mercoledì 14 settembre 2016
Allen Ezail Iverson, è stato uno straordinario giocatore di basket, uno dei pochi campioni della Nba dal fisico "normale".Alto 183 cm. (con le scarpe), riuscì a eccellere grazie al talento, a un intuito fuori dalla norma e a una tecnica straordinaria, frutto di allenamento sì, ma anche di anni passati a giocare nei play-ground. Lì, per strada, Iverson imparò a rubare palla e a sfruttare la sua taglia da uomo (quasi) comune facendone non un limite, ma un punto di forza,diventando uno dei giocatori più immarcabili di sempre.Una bella storia di sport, l'inizio difficile poi l'Nba, tanti titoli e medaglie, l'onore di essere il capitano della nazionale Usa, i Giochi Olimpici, la maglia n. 3 dei Philadelphia 76ers ritirata e così via. Panta rei: il ragazzo diventa uomo, l'uomo diventa atleta, l'atleta diventa campione e il campione, dopo l'abbandono dell'attività agonistica, accede a quella che negli Usa è la porta dell'immortalità sportiva: la Hall of Fame.Nella notte di Springfield, Allen Iverson attraversa la porta della Hall of Fame in compagnia di due giganti: Yao Ming e Shaquille O'Neal. Questi due, insieme, fanno circa quattro metri e mezzo di altezza, ma non si tratta solo di una questione di centimetri. Iverson, ancora una volta, è immarcabile. Il suo soprannome, The Answer, assume un significato definitivo nel momento in cui sale sul palco e prende la parola. Il suo discorso dura trentadue minuti.Incomincia, emozionato, con qualche ringraziamento generico.Poi, dopo pochi secondi, fulmina tutti. La voce si rompe è quasi un singhiozzo: «Voglio ringraziare… Coach Thompson… Coach Thompson, per avermi salvato la vita e per avermi dato un'opportunità». La macchina del tempo usa come carburante le lacrime che riempiono gli occhi di The Answer e di centinaia di fazzoletti in sala. Fa fare a tutti un salto indietro di quasi 24 anni, nel 1993, quando Iverson, diciassettenne, fortissimo sia nel football americano sia nel basket, viene coinvolto in una gigantesca rissa il giorno di San Valentino, a Hampton, in Virginia.C'entra il colore della pelle, c'entra una donna. Viene arrestato, insieme ad altri tre ragazzi di colore e condannato a 15 anni di carcere. Il governatore della Virginia, poiché le prove non sono sufficienti, dopo quattro mesi di carcere gli concede la grazia. Il talento interessa a tante Università, ma nessun coach, né di football né di basket, si vuol prendere la briga di mettersi uno così in squadra. Nessuno tranne John Thompson che regala a Iverson la sua opportunità: il basket e la prestigiosa Università di Georgetown. Due anni dopo, il bad boy è prima scelta al draft Nba. Ventisei anni dopo è lì, con i suoi tatuaggi, le sue treccine. Piange come un bambino e dal palco ringraziare chi, parole sue: «...mi ha salvato la vita». È bello, in qualche forma rassicurante, pensare che esista ancora qualche campione, qualcuno che ha avuto successo, che sia capace di riconoscere l'importanza della figura di un mentore, di un allenatore, di un maestro, di un insegnante.Troppo spesso un gol al novantesimo, un canestro a fil di sirena, una battuta su una riga regalano la possibilità di poter dire e fare qualunque cosa. Possano questi "campioni per poco", nascosti dietro a tweet, tatuaggi, orecchini, capigliature più o meno affilate e foto più o meno patinate, imparare da Allen Iverson. Un ragazzo complicato a cui qualcuno ha offerto una possibilità, trasformandolo in un atleta straordinario, che nel momento più emozionante di una carriera, grazie al sentimento della riconoscenza e della gratitudine, è diventato un uomo completo.E, se volete fare un esercizio virtuoso, guardate in rete il video di quel discorso. Si vedono gli occhi da anziano di coach Thompson, immobili fra lo stupore e l'orgoglio, ipnotizzati a guardare il suo ragazzo diventato uomo.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: