sabato 2 febbraio 2013
Stoccolma, autunno 1996 – La stanza d'albergo dove mi sono sistemata per seguire un convegno dell'Onu ha una finestra su un cortile, che al pomeriggio è pieno di bambini. Io a casa di bambini ne ho due, piccoli. E che cos'è quest' ansia, mentre scrivo? Qualcosa mi insinua un'agitazione strana. Smetto di lavorare, sto in ascolto. Capisco: è questo pianto acuto dal cortile. Il pianto ha composto un codice segreto, e ha allertato qualcosa in me. Non riesco a scrivere perché una parte di me, antica, mi dice che ho un compito più originario, più urgente.È una faccenda di viscere. Come quando di notte, in un hotel di una città qualsiasi, per le pareti sottili passa il vagito di un neonato. Apro gli occhi, senza capire cosa mi ha svegliato. Poi, riconosco il richiamo.Quando sono in viaggio, ora, penso ai figli con nostalgia e quasi con ribellione: perché, se ho questo imperativo nel sangue, mi trovo altrove, lontano? C'è qualcosa di sbagliato in tutto questo, protesto fra me, confusamente. E conto i giorni e le ore che mancano al ritorno, e sono sempre la prima all'imbarco, all'aeroporto. Stasera li avrò accanto. Sarò in pace, come la gatta che spiavo da bambina, in montagna, fiera con la sua cucciolata. Sarò felice, stasera – non esistendo più al mondo alcun altrove, da preferire.
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