venerdì 15 febbraio 2019
Èuna gran fatica, continuare ad amare l'Italia in questi anni di irrimediabile e progressivo squallore. «Il fascismo come autobiografia della nazione» fu una convinzione di Gobetti a cui capita spesso di ripensare, in questi giorni “abruzzesi”.
E si cercano però affannosamente dei segni di vitalità – di resistenza e magari anche di attacco – di cui il presente è estremamente avaro, quello della politica istituzionale (i partiti) come quello delle minoranze attive, propositive. Non parlo della cultura, che va avanti come niente fosse, da un libro a un film a un festival, da una chiacchiera scritta a una gridata, le più fastidiose e inutili quelle delle pagine culturali dei giornali dove tutti recensiscono tutti, si elogiano tra loro ed esonda il superfluo. La tentazione del silenzio e del tirarsi da parte non è mai stata così forte, ma la speranza è davvero l'ultima dea, anche se ha ragione chi scrisse (Heinrich Böll) che solo i veri disperati sono autorizzati a parlar di speranza. La speranza di un risveglio, di risposte intelligenti e adeguate, anche se ormai obbligatoriamente minoritarie contro i conformismi e le viltà dominanti, gli egoismi ottusi e crudeli, insensati e autolesionisti. Un motivo di speranza recente è stata lLa grande manifestazione di sabato scorso indetta dai sindacati a Roma, con più di mezzo milione di persone arrivate da tutta Italia (e vederne il poco peso datole dai giornali è anche questo un segno dei tempi, di una cultura servile). L'ho seguita con emozione e attenzione, ma rilevando un dato di fondo – un motivo non certo di speranza! – nell'assenza dei giovani. Eravamo tutti persone dai quarant'anni in su, anzi, forse, dai sessanta in su, ed erano mosche bianche, bianchissime, i ventenni, i trentenni. Che fine ha fatto la capacità di guardare al presente e ai suoi disagi che è stata da sempre, per esempio, una caratteristica degli studenti, delle loro organizzazioni, di un loro movimento? Essi sono stati, a volte forse persino al negativo, una presenza costante nella vita sociale del paese, reattivi agli accadimenti storici, se non altro ai problemi che proprio in quanto giovani e studenti si trovavano di fronte. Che facevano i giovani in quel sabato mattina? Sarebbe interessante saperlo, studiarlo. Molti anni fa, erano gli ultimi anni '50 del Novecento, prima del risveglio dei '60 e comunque enormemente più vivi degli attuali, un grande storico, Franco Venturi, mi disse scherzando – lui che alla mia età era stato partigiano – che la mia generazione era non una “gioventù bruciata” come quella di un famoso film con James Dean, ma una “gioventù lessata”. E chissà cosa direbbe oggi di quella presente! Ma poco dopo ci fu il luglio '60 e tornò ancora buono il vecchio detto del "mai dire mai".
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