giovedì 3 luglio 2003
Un giorno fu chiesto a rabbí Bunam: «Che cosa s'intende oggi quando si parla di un sacrificio per gli idoli?». Egli rispose: «Vi farò un esempio. Quando un uomo pio e giusto che siede con gli altri a tavola e che mangerebbe volentieri ancora qualcosa, vi rinunzia per mantenere la sua reputazione, ebbene questo è un sacrificio agli idoli». Come spesso accade, sono illuminanti le parabole dei Chassidim, gli ebrei mistici mitteleuropei, raccolte dal filosofo Martin Buber (ed. Guanda). La lezione che rabbí Bunam ci offre tocca un nervo scoperto della religiosità nei cui confronti anche Cristo era stato severo, quello dell'ipocrisia. C'è, infatti, una falsa spiritualità e un ascetismo da parata che in realtà nasconde orgoglio, disprezzo, senso di superiorità. E sono proprio questi gli idoli più subdoli e pericolosi ai quali sacrifichiamo i grani d'incenso di inutili rinunce e di vane ostentazioni di pietà. Vorrei, però, sottolineare due elementi connessi all'apologo. Il primo è ovviamente quello della reputazione: è un idolo che certe volte diventa così oppressivo da rendere amara la vita. C'è, infatti, chi vive in perenne agitazione per il giudizio altrui oppure modella ogni suo atto solo «per essere ammirato dagli uomini», come diceva Gesù (Matteo 6, 5). Il secondo dato riguarda, invece, il godimento sereno e pacato delle cose lecite. Bisogna evitare certi sacrifici insensati del corpo e preoccuparci di più di mettere a freno la lingua, il cuore, gli impulsi malvagi. La gioia di un convito non dev'essere offuscata da un'ascesi enfatica: Cristo stesso si è persino lasciato giudicare come "un mangione e un beone", pur di condividere la quotidianità semplice e spontanea.
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