martedì 2 dicembre 2003
Chiunque combatta contro i mostri dovrebbe badare a non diventare un mostro lui stesso. Perché quando scruti l'abisso, l'abisso scruta dentro di te" L'avvocatessa Honey Chandler sta tenendo la sua arringa davanti alla corte federale di Los Angeles e, secondo un vezzo forense universale, infiora la sua tirata con una citazione nobile, quella che anch'io ho ripreso e che è desunta dal filosofo ottocentesco tedesco Friedrich Nietzsche. L'avvocatessa non ha esitazione nello scaricare quell'immagine sull'accusato, il detective Harry Bosch: «Egli ha guardato l'abisso e l'abisso ha guardato dentro di lui. L'oscurità lo ha avvolto e lo ha rapito, trasformandolo in un mostro!». Come mi capita di fare quando sono particolarmente stanco, sto leggendo a notte fonda il thriller piuttosto grossolano La bionda di cemento (Piemme) di uno dei più acclamati scrittori americani di gialli, Michael Connelly. La frase di Nietzsche, però, mi rimane più impressa del resto dell'arringa giudiziaria. Sì, è vero che esiste il fascino dell'abisso e dell'orrore. È una sorta di vertigine che ti cattura e che ti impedisce di sottrarti a quel tragico richiamo. Più semplicemente vorrei spostare l'attenzione su un aspetto, meno clamoroso ma significativo, che può essere dedotto dall'osservazione di Nietzsche. Uno degli antidoti che la natura offre all'uomo è l'assuefazione: è, ad esempio, la dote che permette ai medici legali di adempiere alla loro funzione con freddezza e rigore anche quando sono di fronte a scempi impressionanti e rivoltanti. Ma c'è anche un adattamento perverso ed è quello che tende a riconciliarci progressivamente col male, col vizio, con la colpa, considerandoli come realtà scontate e quasi inoffensive. È lì che spesso inizia una
discesa insensibile ma costante verso l'abisso, di balza in balza, senza più riserve e remore, mentre l'abitudine ci assolve e la superficialità ci acceca.
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