I consorzi chiedono sanzioni severe per la contraffazione dei prodotti tipici
domenica 27 maggio 2018
Chi inganna deve chiudere. È quanto hanno chiesto a gran voce qualche giorno fa i produttori delle cosiddette "indicazioni geografiche", i prodotti tipici agroalimentari che tanta parte hanno nella creazione del buon nome dell'Italia nel mondo. L'occasione è stata un incontro organizzato a Reggio Emilia dall'associazione italiana Consorzi indicazioni geografiche (AiCig), dal quale è emerso il vero cruccio del sistema: la concorrenza sleale di chi si spaccia come tipico italiano senza esserlo. Non si tratta naturalmente solo di una battaglia di bandiera. In gioco, stando ai calcoli appena fatti proprio dalla AiCig, c'è un patrimonio di Dop e Igp, che negli ultimi venti anni si è espanso a dismisura, sia in termini numerici – oggi le Igp italiane (vini esclusi) sono 295 e quelle Ue 1427 – sia di fatturato, portando il settore a circa 15 miliardi di euro di valore. Un vero tesoro che, stando ai protagonisti del comparto, va difeso con le unghie e con i denti da un sistema di contraffazione esteso e ramificato e contro il quale non bastano più le multe seppur salate. Da qui la richiesta: passare dalle sanzioni pecuniarie ad azioni che cancellino i «comportamenti fraudolenti».
E non si tratterebbe solamente di giro d'affari. Oltre alla grande capacità di esportare, infatti, «l'agroalimentare di qualità – si legge in una nota diffusa dopo l'incontro –, ha scelto di puntare ed investire sul territorio: ciò non si è rivelato un limite bensì una grande opportunità che ha appunto premiato il settore, soprattutto dall'estero». Atteggiamento quindi economicamente vincente, ma anche socialmente utile. Che per questo va valorizzato insieme agli strumenti che il sistema delle indicazioni geografiche sta già sperimentando da tempo: certificazione e tracciabilità, che vanno di pari passo con la certezza dell'origine e dei metodi di trasformazione. I produttori poi non chiedono soldi, ma strumenti. Anche sul fronte internazionale e soprattutto per quanto riguarda gli accordi bilaterali. «Occorre – si legge nella nota –, lavorare a negoziati che puntino al riconoscimento delle indicazioni geografiche come valore globale dello sviluppo agricolo. Norme in grado di eliminare le pratiche ingannevoli per il consumatore, in particolare l'utilizzo di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evochino l'Italia per pubblicizzare prodotti affatto riconducibili al nostro Paese, la forma più sfacciata di concorrenza sleale e truffa nei confronti dei consumatori nel settore agroalimentare». Insomma, dopo quello dei coltivatori, che della difesa delle tipicità hanno fatto un loro mantra, insistono adesso anche i consorzi: chi truffa deve chiudere.
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