martedì 26 maggio 2020
Di nuovo a Messa nella chiesa consueta. Entriamo nella sua penombra, cerco con gli occhi sulla sinistra una Madonna di Bernardino Luini che mi è cara. Siamo tornati a casa, mi dico. Il coro delle voci dei fedeli, l'alzarsi e il sedersi insieme dalle cigolanti panche di legno scuro, l'atto dell'inginocchiarsi. Gusto questi gesti come fossi tornata da un paese lontano.
Ma una parola del sacerdote mi colpisce. Torniamo a Messa, osserva, nel giorno dell'Ascensione, cioè 40 giorni dopo la Pasqua. Quaranta giorni che, spiega, non furono per apostoli e discepoli così sereni. Cristo era risorto, ma non avevano creduto a Maddalena, che lo aveva veduto. Né a due di loro che, riporta Matteo, lo avevano incontrato nei campi. E i discepoli di Emmaus camminano con Cristo senza capire chi è: solo quando spezza e benedice il pane, lo riconoscono. In quei 40 giorni fino all'Ascensione, dice ancora il sacerdote, il cuore di Pietro e degli altri tremava di dubbi. Lui era veramente risorto? (Quanto terribile, penso io che ascolto, doveva essere pensare che Cristo fosse morto davvero, e per sempre). La domanda, in realtà, è la stessa oggi di allora: davvero la morte non è l'ultima parola?
E in quanti ce lo siamo domandati, fra noi, in questa triste primavera, vedendo soffrire e morire padri e madri, o amici. Perché il dolore più grande è una sfida: tiene, nella tempesta, la fede dei giorni "normali"? Ma proprio questo è il tempo, esorta il sacerdote, per tirare fuori le domande più profonde, e portarle davanti a Cristo. Senza vergogna.
L'ombra che abbiamo traversato come la nebbia fitta di certi giorni d'inverno, in cui sembra che il sole non possa tornare. Ma il tempo fecondo, anche, di un faccia a faccia con Cristo. Spogliati dell'abitudine, senza finzioni. Domandando con la mano tesa, come chiede uno che ha fame.
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