domenica 13 ottobre 2002
Gli insuccessi sono i soli maestri che possono rimproverarci utilmente e strapparci quella confessione di aver sbagliato che tanto costa al nostro orgoglio. In un'antica edizione rilegata in marocchino rosso, donatami tempo fa da un vecchio parroco, sto leggendo la solenne ( e un po' enfatica) Orazione funebre per Enrichetta Maria di Francia, regina di Gran Bretagna, tenuta da quel celebre predicatore secentesco che fu il vescovo francese Jacques-Bénigne Bossuet. L'attenzione mi cade su questa frase che si stacca dalla retorica celebrativa di quel discorso e colpisce un po' tutti. Tutti, infatti, prima o poi nella vita c'imbattiamo nel fallimento di una nostra opera, nei fischi, nel sarcasmo per un risultato negativo. È, quello, uno dei momenti più ardui da vivere. Facile è la tentazione dell'autodifesa a oltranza, scaricando ogni colpa sul destino, sugli altri che non capiscono o che ci osteggiano, sulla società. Avere il coraggio di vagliare le cause dell'insuccesso risalendo alle proprie responsabilità e riconoscendo gli errori - ci dice il vescovo Bossuet - è come aver imparato la lezione di uno dei maestri più importanti e necessari, cioè la vita. Un altro francese, più vicino a noi, lo scrittore Jean Cocteau (1889-1963), affermava: «La morale dell'insuccesso è l'unica durevole. Chi non capisce l'insuccesso è perduto». Quando il nostro cielo s'offuscherà e la sconfitta
brucerà, ricordiamo che quell'amarezza è simile a una medicina che contrasta i germi della superbia e salva la salute dell'anima.
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