venerdì 14 febbraio 2014
C'è stato un tempo in cui di violenza rossa e nera non si poteva non parlare, perché era lì, nelle pieghe della società, ed esplodeva producendo morti e feriti con ripercussioni vive ancora oggi. Ha lasciato una scia di misteri irrisolti, di dubbi, di accuse. Hanno narrato quegli anni e quegli eventi molti protagonisti, rossi e neri, capi e seguaci, e qualche rappresentante delle istituzioni. E scrittori vecchi e giovani li hanno affrontati in chiave romanzesca. Restano vivi odio e silenzi, ma si dispone di studi di storici di valore, su quegli anni e dunque anche sul terrorismo. Sono autori che quegli anni li hanno vissuti, ma forse è più interessante leggere, mentre i libri dei figli delle vittime sono per forza di cose "di parte", quelli di studiosi nati e cresciuti dopo, come Guido Panvini (classe 1979) e Gabriele Vitello (classe 1983). Del primo, Ordine nero, guerriglia rossa (Einaudi 2009) e il recentissimo, più ampio e approfondito, Cattolici e violenza politica (Marsilio). Del secondo, L'album di famiglia: gli anni di piombo nella narrativa italiana (Transeuropa). Per chi ha vissuto quegli anni e ha avuto qualche conoscente o amico sia tra gli ammazzati che, probabilmente, tra gli assassini, e ricorda l'angoscia con cui ascoltava al mattino la radio e leggeva i giornali, non si tratta di letture tranquille, e una vera distanza da quei fatti gli sembra ancora impossibile. Ma, sia pure con fatica, si tratta di letture necessarie, che vanno affrontate pensando a come sia stato possibile che dei giovani si siano lasciati trascinare in quella logica, le convinzioni e i moventi che li hanno sorretti, gli avvenimenti e le letture che li hanno convinti. Un atto di coscienza di noi vecchi più che necessario, affinché quelle logiche non debbano riattivarsi. Le ultime parole del bel saggio di Vitello dicono che la letteratura non basta a capire il passato, ma esprime «il nostro inconscio politico» e oggi «la latente e inquietante rabbia sociale pulsante sotto la superficie della scena pubblica». I terroristi - ma non sempre i capi - erano giovani, a volte giovanissimi. È ancora necessario capire il perché delle loro scelte e la cultura che le ha nutrite, che aveva per base in alcuni non solo il gusto della violenza e le cattive ideologie, ma l'indignazione e la disperazione per lo «stato delle cose».
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