sabato 11 maggio 2019
Che cosa fa di un gruppo di credenti una comunità? E, al contrario, che cosa può invece uccidere una comunità? È l'eterna domanda che attraversa tutta la storia della Chiesa, da sempre tentata dal riporre la propria sicurezza nell'efficientismo e nella rigidità della dottrina. Ma, ci ha ricordato Papa Francesco qualche giorno fa da Sofia durante il suo viaggio in Bulgaria, «una Chiesa giovane, una persona giovane, non per l'età ma per la forza dello Spirito, ci invita a testimoniare l'amore di Cristo, un amore che incalza e ci porta ad essere pronti a lottare per il bene comune, servitori dei poveri, protagonisti della rivoluzione della carità e del servizio, capaci di resistere alle patologie dell'individualismo consumista e superficiale. Innamorati di Cristo, testimoni vivi del Vangelo». Mentre «la minaccia più grande per una comunità è il grigio pragmatismo della vita, nella quale apparentemente tutto procede con normalità, ma in realtà la fede si va esaurendo e degenerando in meschinità».
Parole forti, non c'è dubbio. Ma del resto non c'è neanche dubbio che «davanti alle esperienze di fallimento, di dolore e persino del fatto che le cose non risultino come si sperava, appare sempre una sottile e pericolosa tentazione che invita allo scoraggiamento e a lasciarsi cadere le braccia». Si tratta di quella che Bergoglio definisce «la psicologia del sepolcro», quella «che tinge tutto di rassegnazione, facendoci affezionare a una tristezza dolciastra che come una tarma corrode ogni speranza».
Parlando nel 2011 ai cattolici tedeschi impegnati nella Chiesa e nella società, Benedetto XVI, nel sottolineare l'urgenza di sfuggire alla medesima tentazione, spiegò che «non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell'oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell'oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine». Avendo presente sempre, ritornando alle parole di Francesco, le «tre realtà stupende che segnano la nostra vita di discepoli: Dio chiama, Dio sorprende, Dio ama». Tutti lo sappiamo che proprio «nel fallimento di Pietro, arriva Gesù, ricomincia da capo e con pazienza esce ad incontrarlo e gli dice "Simone": era il nome della prima chiamata. Il Signore non aspetta situazioni o stati d'animo ideali, li crea. Non aspetta di incontrarsi con persone senza problemi, senza delusioni, peccati o limitazioni. Egli stesso ha affrontato il peccato e la delusione per andare incontro ad ogni vivente e invitarlo a camminare. Fratelli, il Signore non si stanca di chiamare. È la forza dell'Amore che ha ribaltato ogni pronostico e sa ricominciare. In Gesù, Dio cerca di dare sempre una possibilità». A noi rispondere, con il cuore sempre giovane per non essere imbrigliati dalle pastoie del pragmatismo, consapevoli che «quando è la chiamata di Gesù a orientare la vita, il cuore ringiovanisce». Perché il Signore «ci chiama ogni giorno a rivivere la nostra storia d'amore con Lui, a rifondarci nella novità che è Lui. Tutte le mattine, ci cerca lì dove siamo e ci invita "ad alzarci, a risorgere sulla sua Parola, a guardare in alto e credere che siamo fatti per il Cielo, non per la terra; per le altezze della vita, non per le bassezze della morte", e ci invita a non cercare "tra i morti Colui che è vivo"». Ci esorta a seguire senza paura quella missione alla quale tutti, senza eccezioni, siamo chiamati.
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