Dio ci chiede di portare frutto dentro la vita
giovedì 25 aprile 2024
V Domenica di Pasqua - Anno B In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Un Dio agricoltore è il nostro, un Dio contadino dalle mani grosse e callose e dal volto segnato dal sole e dal freddo. Che non solo odora di pecore, le sue, quelle che strappa ai morsi dei lupi, ma che infaticabile lavora nei campi, i suoi, perché esplodano di vita. Le viti non sono piante alte e me lo immagino, questo Dio, inginocchiato e sudato a prendersi cura di me.
E se il Padre è il vignaiolo, il Figlio è lui stesso vite,
pianta dalle cui radici germogliamo tutti e tutte. Aria aperta, sole, vento: che bello pensare che la nostra vita è questa. Lo diceva anche papa Giovanni: “Non siamo sulla terra a custodire un museo, ma a coltivare un giardino fiorente, destinato ad un avvenire glorioso.” Cioè festoso, danzante. Ma quel che nel brano di oggi colpisce il mio cuore è quel “rimanete in me”: mi fa tornare in mente il “resta con noi, perché si fa sera“ dei discepoli di Emmaus, quel “non te ne andare, stai ancora con me” che si dicono gli amanti. Come se anche Dio provasse nostalgia, nostalgia di me. Come se anche lui sentisse il dolore della separazione, lo strappo dello stare lontani. “Rimanete in me e io in voi, perché tra me e voi scorre la stessa linfa, siamo innestati l’uno nell’altro.” È un Dio che scorre nelle mie vene, non distante, non da cercare fuori o altrove, ma tanto intimo e vicino che posso succhiare da lui la vita. E, se mi allontano troppo, rischio che quella linfa non arrivi fino alle mie ultime cellule. Rischio di non riuscire più ad amare. I contadini bravi lo sanno, a quel punto c’è da prendere le cesoie e tagliare. Non per punizione, non per saggiare la resistenza alle prove e alla sofferenza, ma per la vita, perché, dopo, la pianta è più bella e può dare i suoi frutti migliori. L’unico, il solo senso che possiamo cercare di dare alla vita si riassume in questa semplice e umile richiesta da parte di Dio, portare frutto: che senso avrebbe una vite che alla fine dell’estate non desse i suoi grappoli abbondanti,
succosi e dolci come miele? Se restasse solo un insieme di rami secchi e inariditi? Che senso avrebbe il seme nella terra che non diventi spiga, o l’acqua che, pur bagnando i campi, non li renda fertili? “Rimanete in me” ci chiede oggi Gesù, Lui che conosce il segreto della vita e dell’amore: una vendemmia abbondante per far festa, canti di gioia per il ricco raccolto, braccia che sollevano ceste di frutti, in una gratitudine che profuma solo di vita. Dice Paolo agli Ateniesi: “In lui noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At.17,28): è aria nei nostri polmoni, sangue nelle nostre vene, gemma sempre pronta a fiorire. (Letture: Atti 9, 26-31; Salmo 21; Prima Lettera di Giovanni
3,18-24; Giovanni 15,1-8) © riproduzione riservata
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