Digitali e contenti? Sarà la fine del Pianeta
venerdì 20 settembre 2019
Una volta si parlava, si teorizzava, si fantasticava di utopie: immaginandole come esito finale del progresso storico; o come ideale irrealizzabile ma necessario a misurare ingiustizie, miserie, orrori del presente; o ancora, infine, come immagini di felicità che lampeggiano nelle grandi opere d'arte e che perciò fanno delle arti un prezioso, indispensabile alimento per la vita e la sopravvivenza di una civiltà. Ma certo non era possibile che i poteri che dominano e controllano il mondo si lasciassero sfuggire di mano l'uso interessato di suggestioni pseudo-utopiche o di surrogati illusionistici dell'utopia.
Se c'è un coro di sirene ingaggiate per distribuire al più grande numero di persone una pioggia di minimi piaceri momentaneamente appaganti e sempre a portata di mano, queste sirene lavorano oggi a pieno regime e con risultati trionfali per la nuova “industria della coscienza” creata dai colossi del web. Solo che il canto di queste sirene non promette, realizza. Il risultato è un mondo nel quale, fin da subito, ogni essere umano, dalla più tenera età alla senilità più avanzata, vive sempre, dovunque si trovi, con uno smartphone in mano, grazie al quale gli pare di sentirsi padrone del mondo: informato, emozionato, intelligente, colto, rilassato, piacevolmente intrattenuto, allegro e comunque mai annoiato.
Chissà che cosa penserebbero di fronte a un tale spettacolo quotidiano gli autori di romanzi sull'utopia negativa come Huxley e Orwell, o sociologi e moralisti della cultura di massa “totalitaria” come Kraus, Adorno, Montale, Pasolini... Ecco l'utopia realizzata al più basso e vasto livello possibile: ogni essere umano, tutti i giorni, tutta la vita, a digitare e farsi entrare in testa “contenuti di coscienza” prefabbricati ma divertenti, accattivanti, autopubblicitari. Anche la scelta dei libri scolastici, ho sentito dire, viene fatta dando la precedenza a quelli più “accattivanti”, quelli cioè le cui pagine riescono a somigliare il più possibile a uno schermo, a un display, e il meno possibile a un libro da leggere riga dopo riga.
L'ultimo numero di “Internazionale” pubblica un articolo di uno dei più lucidi esperti di tecnologia informatica, Evgeny Morozov. Nel testo si parla del miliardario suicida Epstein, accusato di ripetuti abusi sessuali su ragazze minorenni, e di suoi rapporti economici con le élite tecnologiche. A questo si riferisce il titolo: Il fallimento morale del capitalismo digitale, che è in mano, dice Morozov, a «un gruppo di opportunisti senza scrupoli». Quel titolo, però, sarebbe più interessante se riferito al “successo morale” (o immorale) del capitalismo digitale. Come la produzione materiale, che si vorrebbe sempre “in crescita”, sfrutta distruttivamente le risorse naturali del pianeta, così la produzione culturale dominante, quella digitale, sfrutta gli esseri umani fino al midollo. Ne occupa la mente, ne sequestra la coscienza, le reazioni emotive e sensorie. L'assuefazione che provoca è incomparabilmente più potente, diffusa, insidiosa del gioco d'azzardo e delle droghe. Ma nessuno lo dice.
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