Dalla Veronica alla carta d’identità, così Scianna ci mostra chi siamo
lunedì 1 febbraio 2021

In principio fu la Veronica. Per il poeta e fotografo Gérard Macé è un luogo comune, il più scontato dei luoghi comuni, che non bisognerebbe dunque mai usare. Ma Ferdinando Scianna osa e sfida l'ammonimento dell'amico. Così nella cavalcata «personale» e «arbitraria» lungo la storia del ritratto fotografico, parte proprio da lei, con tanto di titolo: Il viaggio di Veronica (Utet, pagine 190, euro 29,00). Perché «per scontata che sia, la metafora di Veronica è proprio quella che mi ha fatto da filo conduttore immaginario» in questo viaggio. Il primo fotografo italiano a entrare nell’Agenzia Magnum, che negli ultimi anni ci sta regalando bellissimi testi (memorie e interpretazioni nel tempo e nello spazio), ora tratteggia il senso di quello che può considerarsi “la” fotografia per eccellenza: il ritratto. Lo fa partendo dal “primo ritratto”: «Veronica, lungo l’impervia trazzera del Golgota, lacrimosa e gemente, rosseggiante nella luce che si avvia al tramonto, che fulminea sfugge al controllo del centurione, si avvicina al Cristo e imprime un candido panno sul suo volto istoriato di piaghe e di sangue. Quelle piaghe e quel sangue lasciano sul panno la traccia, l’immagine esatta e irripetibile dell’uomo-dio, del suo sacrificio assoluto». Ecco, Veronica «prima ritrattista». Anche perché cos’è un ritratto se non «una immagine che riproduce e mostra l’aspetto visibile di una persona, un uomo, una donna, un bambino»? Il ritratto è profondamente legato all’identità, alla coscienza di sé e dell’altro. «Il ritratto – spiega Scianna, muovendosi sempre con intelligenza e ironia fra leggenda e realtà – comincia con la catastrofe raccontata dal mito di Narciso che morì per non avere saputo riconoscersi nell’immagine che lo specchio della fonte di lui rifletteva. Il ritratto, come la stessa coscienza, può insomma cominciare a esistere solo dopo aver preso atto che oltre alla realtà esiste anche l’immagine della realtà, e che questa immagine può anche essere un’immagine di noi stessi».

Noi davanti allo specchio. Ma non solo. Non basta. «Troppo fuggevole e troppo sfuggente è la labile immagine che ci rimanda di noi stessi e degli altri, delle cose. Come il gigantesco puzzle della nostra memoria, l’identità ha bisogno di elaborarsi, di potersi ancorare a immagini in qualche modo fissate, riferibili alla realtà, rivisitabili». Scianna percorre il ritratto fotografico lungo il filo della storia, dagli albori della fotografia ai giorni nostri, da Fox Talbot al gigante Nadar, da Dorothea Lange al maestro Cartier-Bresson, “il Mozart della fotografia”; dai ritratti di gente comune a quelli dei divi e dei leader di Stato; passa dal dagherrotipo alle “Cartes de visite” di Eugène Disdéri e poi l’invenzione dell’album di famiglia fino alla fotografia giudiziaria e alle carte d’Identità, come strumento di «controllo sociale». Un oggetto che abbiamo tutti nei nostri portafogli. Miliardi di documenti in tutto il mondo, dove oltre ai dati anagrafici e alle nostre caratteristiche fisiche – altezza, colore degli occhi e dei capelli, segni particolari – c’è una fotografia: il nostro ritratto. «È soprattutto quella piccola fotografia che fornisce la prova che noi siamo chi diciamo di essere – scrive Scianna –. A quella foto, a quel ritratto, l’apparato sociale attribuisce il ruolo di certificare la cosa più delicata che ci appartiene, la nostra identità». Di più: «quella fotografia, più che certificarla, contiene la nostra identità». Perché «se un poliziotto ci ferma per un’infrazione e ci chiede la patente, o un doganiere ci chiede il passaporto – argomenta Scianna – , quello che pretende è che noi assomigliamo alla fotografia più che la fotografia assomigli a noi. Tu devi assomigliare alla fotografia altrimenti non sei tu». Noi siamo quella fotografia. La nostra identità è quell’immagine. Se ci pensiamo, è sconvolgente. Così le foto più diffuse e più importanti, al punto di definire, per la società, chi siamo sono dei «falsi» autoritratti scattati per lo più nelle cabine del “fotomaton” da una macchina. Accanto alle immagini che hanno fatto la storia del ritratto fotografico, ecco allora la riproduzione della carta d’identità di Ferdinando Scianna, nato a Bagheria (Pa), il 4 luglio 1943, rilasciata dal Comune di Milano nel 2008.

Ma se l’immagine di noi che ci rappresenta nei documenti ufficiali, la cambiamo ogni cinque, dieci anni, oggi, al tempo del digitale e dei telefonini-macchine fotografiche, con l'autoritratto diventato “selfie”, la nostra identità virtuale è affidata a continui scatti da condividere, spesso in maniera delirante, nei propri profili social. La degenerazione della centenaria, millenaria necessità di «rappresentarci». L’immagine di sé che cambia continuamente, che annulla quella precedente. Un modo del tutto diverso dal “mettersi in posa” di fronte a un obiettivo «per paura della sua obiettività»: il rischio ora è di avere – come Scianna ricordava in Lo specchio vuoto (Laterza) – un Narciso che «dentro l’acqua tecnologica che lo riflette non vede nessuno». L’excursus personale di Scianna nella storia del ritratto, oltre a regalarci tantissime curiosità, diventa anche uno stimolo a riflettere su quello che siamo: noi e l’immagine di noi. A partire - per chi crede - proprio da quello che trasmette il ritratto unico e irripetibile che ci ha lasciato la Veronica duemila anni fa.

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