venerdì 17 novembre 2006
Per gli uomini di intelligenza limitata e di forte amor proprio ci sono momenti in cui la coscienza di essere infelici procura un certo godimento: essi civettano persino di fronte a se stessi con le loro sofferenze. C'è in italiano una suggestiva espressione: «Crogiolarsi nel proprio dolore» (oltre che nel piacere). È un modo efficace per rappresentare quel fuoco lento a cui ci si affida per cuocere i propri sentimenti, deliziandosi in essi. Il paradosso è quando non è il godimento a bearci ma l'infelicità. Abbiamo tutti, credo, conosciuto persone che ti affliggono con infinite ripetizioni dei racconti delle loro disgrazie e questo atteggiamento è in pratica il loro sfogo permanente, la loro unica soddisfazione, al punto tale che non di rado essi si configurano il volto secondo i canoni della persona lamentosa, mesta e afflitta. Denuncia questo masochismo spirituale, meno raro di quanto si pensi, quel grande scrittore russo ottocentesco che fu Anton Cechov, in uno dei suoi bellissimi racconti (Lo champagne). Le sue parole, sopra citate, ci spingono a una considerazione valida per tutti, anche per chi non è scontento e malinconico di natura. Quando la prova ci colpisce, certo, è spontaneo e giusto chiedere un conforto, ma è altrettanto giusto che non ci si avviticchi all'altro come un'edera, accanendosi nella domanda di compassione o ergendosi a vittima planetaria. La dignità nel soffrire è sicuramente una conquista ardua ma segnala un'anima che non si rassegna, che non va alla deriva, che non si crogiola appunto nella sua tristezza. Solo così si evita di essere solamente un peso e soprattutto di far diventare l'infelicità un'abitudine interiore.
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