Cosa raccontano davvero le lacrime di Paola Egonu
mercoledì 19 ottobre 2022
Bisogna avere rispetto e delicatezza. E bisognerebbe anche aver fatto un po’ di sport per capire che il momento immediatamente dopo la fine dell’ultima partita di un torneo difficilissimo come un campionato mondiale e di un’intera stagione, fatta di mesi con la squadra nazionale, andrebbe lasciato all’intimità di chi ne è stato protagonista. Le lacrime e le parole (rubate) di Paola Egonu, talento fuori scala del volley azzurro, ragazza nata a Cittadella, in provincia di Padova, al termine della finale, peraltro dominata dalle nostre azzurre, per la medaglia di bronzo ai Mondiali, dicono tanto di lei, ma anche di noi. Parlano di lei, cioè di una ragazza di ventitré anni che ha scelto uno sport che prevede il passaggio come gesto obbligatorio, che impone che il singolo sia sempre in relazione alla sua squadra e dove il singolo non può mai determinare l’esito finale di un match. Quelle lacrime e quelle parole sono l’esito di tante aspettative, di tante, troppe, attenzioni iniziate quando quella ragazza di anni ne aveva quindici o sedici, di una pressione che certamente è lontana dall’essere quella del calcio, ma che è comunque tanta per le spalle di una ragazza che da tanti anni viene considerata una predestinata. Sono lacrime di una ragazza che ha avuto una palla importantissima da mettere a terra, alla fine del terzo set della semifinale contro il Brasile, che ha sbagliato e che sa che una singola palla può diventare, talvolta nel bene, in questo caso nel male, più “indimenticabile” di centinaia di palloni che a quella palla hanno permesso di arrivare. Ma quelle lacrime, dicevo, parlano anche di noi, della nostra patologica necessità di esprimere giudizi, soprattutto da parte di coloro che hanno il fondoschiena avvitato su un divano o dei tanti “post-veggenti”, coloro che dopo che una cosa è finita spiegano nei dettagli come si sarebbe dovuto farla. Le lacrime e le parole di Paola Egonu raccontano che quei giudizi gratuiti possono far male, eccome. E, fino qui, siamo rimasti su un versante sportivo. Ma quelle lacrime e quelle parole richiamano anche un contesto che non può essere taciuto e fanno riferimento a un clima che permette, troppo spesso, che a quei giudizi, si aggiunga un riferimento al colore della pelle, alla patente di italianità, alla legittimità di indossare la maglia azzurra. È su quest’ultimo versante che occorre che la guardia resti altissima. Perché se, da allenatore so che, ahimè, è inevitabile il giudizio di tanti allenatori da salotto, non posso sopportare un Paese che, fortunatamente solo in una sua minoranza, strizza l’occhio a un atteggiamento che si può definire con un nome solo: razzismo. Proprio questo atteggiamento ha ottenuto un obiettivo e generato un effetto collaterale. L’obiettivo è stato quello di far del male a una ragazza che ha bisogno della sua squadra forse perfino più di quanto la squadra abbia bisogno di lei. L’effetto collaterale è che ha fatto passare sottotraccia un gigantesco risultato sportivo, la conquista di una medaglia mondiale in uno sport di diffusione planetaria. Certo, per tanti “CT da divano” e “post-veggenti” sembrerà un insuccesso. Per me, e per tante persone che lo sport lo conoscono e lo amano, quella medaglia merita esclusivamente un grazie e un applauso allo staff guidato da Davide Mazzanti e alle quattordici ragazze azzurre, tutte orgoglio di chi vuole bene a questo Paese. © riproduzione riservata
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