Contro il male in Rete non basta una carta di identità: serve l'impegno di tutti
venerdì 1 novembre 2019
Comunque la si pensi, ci sono dati oggettivi. Il primo è che sui social, da tempo, c'è un tasso di violenza inaccettabile. Il secondo è che tanti odiatori seriali sembrano non rendersi nemmeno conto della gravità delle loro minacce. Il terzo è che esistono produttori di fake news (anche stranieri), che le realizzano con l'unico scopo di aizzare le persone. Il quarto è che troppi esseri umani non sono (e forse non saranno mai) abbastanza attrezzati per riconoscere ciò che è vero da ciò che è falso.
Fin qui siamo (quasi) tutti d'accordo. Così come (forse) siamo (quasi) tutti d'accordo sul fatto che occorra fare qualcosa per combattere tutto questo. Quello che ci divide è tutto il resto. A partire da come fare per affrontare problemi che sembrano simili ma non lo sono. Perché un conto sono i cosiddetti «leoni da tastiera» e un altro i produttori (anche stranieri) di «fake news».
La proposta del deputato renziano Luigi Marattin, di obbligare chiunque apra un profilo social a presentare un documento (in modo che la sua identità sia certificata), ha diviso in questi giorni esperti e persone comuni.
Ad oggi, se un utente commette un reato in Rete, viene rintracciato il suo indirizzo Ip. Si tratta di un'etichetta numerica che identifica un dispositivo collegato a Internet. Quindi, cosa facciamo: schediamo tutti i milioni di italiani che navigano in Rete? Bene, ma chi paga? E soprattutto: chi gestirà questa mole di dati sensibili? E ancora: visto che tutti i social network hanno estensioni praticamente mondiali, come facciamo ad obbligarli a sottostare a queste regole?
Non è finita. Già oggi infatti si può camuffare un indirizzo Ip, sostituendolo con un altro che simula la presenza dei nostri cellulari o dei nostri pc in luoghi anche molto lontani da dove realmente sono. Basta un servizio Vpn, da pochi euro, per criptare il traffico Internet e proteggere un'identità online. Quindi, chi vorrà si fingerà residente in un'altra nazione e si iscriverà all'estero, aggirando le regole italiane e continuando così a usare un profilo finto sui social.
Il problema è così complesso che porta con sé altre domande importanti. Chi tratterà, con quali forze e con quali tempi medi le inevitabili cause e gli accertamenti di reato che inevitabilmente emergeranno sempre più numerosi, colpendo solo le persone che avranno accettato di farsi schedare? Altro aspetto. Come la mettiamo con chi sostiene che la possibilità di rimanere anonimi in Rete sia una garanzia di libertà di espressione, soprattutto in Paesi a rischio?
La questione è talmente importante e talmente complessa che ha bisogno di essere analizzata non solo dai politici ma
anche da un bel numero di esperti. A un patto: che i politici si mettano ad ascoltare e gli esperti la smettano di dire che non si può fare nulla, senza indicare possibili soluzioni ai problemi. Perché, comunque la si pensi, questi problemi – diversi, complessi ma tutt'altro che secondari – esistono e vanno affrontati. Insieme, con tavoli ampi e con persone preparate. Mettendo in campo quella che viene definita «l'intelligenza collettiva». Ma va fatto. Per il bene di tutti. In questo senso la Commissione Segre è un importante passo in avanti anche al di fuori della Rete. E un passo indietro per le divisioni che ha mostrato in campo politico.
Restiamo a Internet. Gli odiatori sono uno dei mali della Rete e vanno combattuti con forza. Ma ciò che deve farci davvero paura (come ci ha insegnato il Russiagate) sono coloro che dispongono di ingenti capitali (all'estero e in Italia) per orientare la Rete e gli umori anche politici delle persone. Un fiume di denaro che ingrassa anche i bilanci dei social network. E che non si può certo contrastare a colpi di mozioni. Per questo è molto importante la scelta di Twitter di vietare sulla propria piattaforma i messaggi politici a pagamento.
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