sabato 29 aprile 2006
Le poche cose che ora io scrivo, intendo, o Anima mia,
che siano per te sola. Tu, la più parte del tempo, sei ciecamente perduta dietro alle basse e troppo vili cose di questo mondo, che è tutto vanità, che svanisce come il fumo e, come l'erba, si dissecca. Ho nutrito sempre simpatia per la figura e l'opera di Antonio Rosmini, uomo di pensiero e di fede, così come ho amato quel rosminiano straordinario che è stato Clemente Rebora e ho stimato l'altro rosminiano noto, il vescovo Clemente Riva. Ai Colloqui con l'anima sua del filosofo roveretano ottocentesco attingo ora per una meditazione semplice a duplice profilo. Da un lato, le parole citate sono un invito al dialogo interiore con la propria anima. Quante sono le persone che sanno fare ancora l'esame di coscienza al termine di una giornata o di un periodo di attività e di impegni? Star in silenzio per pochi minuti è ormai un esercizio quasi impossibile e considerato improduttivo in una società così superficiale e frenetica. D'altro lato, Rosmini svela la ragione profonda di questa incapacità. Essa è nella «cosificazione» dell'anima, che si abbassa al livello delle cose, del piacere immediato, della materialità greve. Non è più nutrita di spiritualità, di virtù, di amore e quindi si intisichisce, non ha più sussulti morali. S. Caterina da Siena, che oggi la liturgia commemora, scriveva: «L'anima è un arbore fatto per amore e perciò non può vivere altro che d'amore». In questa luce prima ancora di preoccuparsi delle malattie della "psiche", dovremmo essere attenti alle degenerazioni dell'anima quando essa perde la sua tensione spirituale ed etica e si riduce a una larva, grigia come le cose, inconsistente come il fumo, vuota come un tronco arido.
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