giovedì 22 dicembre 2016
Una delle sue idee fisse era lo studio obbligatorio del greco nelle scuole elementari. È uno degli aspetti geniali e paradossali della personalità di Simone Weil, uno dei pochi intellettuali del '900 a saper incarnare positivamente pensiero e azione, dall'insegnamento nei licei all'esperienza di lavoro in fabbrica, dall'impegno diretto nella guerra civile spagnola al tentativo, frustrato per motivi di salute, di operare nella Resistenza. Il suo amore per il greco, per la lingua e la sua civiltà, la spinse a scrivere un adattamento delle grandi tragedie di Sofocle per gli operai, allo scopo di «rendere accessibili alle masse popolari i capolavori della poesia greca». Era convinta che il racconto di Omero nell'Iliade e drammi come Antigone o Elettra fossero «cento volte più vicini al popolo della letteratura francese classica e moderna». Progetto utopistico, si dirà, in un tempo come il nostro dove sempre più si mette in discussione lo studio dell'eredità classica dell'Europa. Proprio per questo ci pare giusto segnalare il volume La Grecia e le intuizioni precristiane della filosofa francese, uscito da Borla nel 1984 e da poco ripubblicato da Adelphi con un titolo meno azzeccato, La rivelazione greca (2014).
È l'Iliade soprattutto, assai più dell'Odissea e dell'Eneide, a rappresentare per Simone il poema della forza e della sventura. I personaggi di Omero, sia vincitori che vinti, sono tutti vittime della violenza della sorte: è la miseria degli innocenti a risplendere in ogni pagina: «Il poeta dell'Iliade ha sufficientemente amato Dio per avere questa capacità. È questo il significato implicito del poema e l'unica fonte della sua bellezza. Ma non lo si è affatto capito». E ancora: «L'Iliade è unica proprio per questa amarezza che deriva dalla tenerezza e che si diffonde in tutti gli esseri umani. Nulla di prezioso, destinato o meno a perire è disprezzato». La tragedia greca e il pensiero di Platone, su cui nel libro sono contenuti alcuni saggi oltre a quello sull'Iliade, ne sono la vera continuazione. Sublimati dal Vangelo, «ultima e meravigliosa espressione del genio greco». Non a caso Simone soleva spesso ripetere mentalmente il Padre nostro in greco, che conosceva a memoria.
Ben diverso il suo atteggiamento verso la cultura ebraica (basti dare un'occhiata al libro Il fardello dell'identità, Medusa 2014) e verso quella latina. A suo parere il fondamento spirituale dell'Occidente va ritrovato solo nella civiltà greca e nel cristianesimo. Come ben annota Giancarlo Gaeta nella postfazione del libro adelphiano, si verifica in lei una sostituzione: la rivelazione ebraica cede il posto a quella greca. Nonostante le sue origini, c'è nella Weil un'obiezione fondamentale all'ebraismo, il cui Dio giudica crudele ed esclusivo, in gran parte non condivisibile. Così come il suo parere sulla civiltà romana: nel libro Sulla Germania totalitaria (Adelphi 1991) paragona Cesare a Hitler, ritrovando le radici della politica espansionistica della Germania nazista nell'impero romano, considerato il primo vero sistema totalitario della storia.
Ma non possiamo parlare di Simone Weil senza spendere qualche parola sul suo rapporto con la Chiesa cattolica, da cui si sentiva fortemente attratta ma al contempo allontanata dai dogmi e dall'organizzazione sociale. «Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, avverto quasi la certezza che questa fede è la mia, o più esattamente sarebbe mia senza la distanza che la mia imperfezione ha posto tra me e lei», scrisse negli ultimi mesi nel suo dialogo sempre aperto con padre Perrin, che le fu amico dal giugno 1941 fino alla morte sopraggiunta il 24 agosto del 1943 in un sanatorio inglese. Così come, nel suo viaggio negli Usa nel luglio 1942, fece conoscenza con padre Couturier, cui indirizzò la nota Lettera a un religioso. Era nutrita del Vangelo, dell'arte cristiana, di san Francesco e san Giovanni della Croce, ma rifiutava quella che considerava l'identificazione indebita della Chiesa cattolica con il regno dei cieli, «che non è di questo mondo». Le piaceva l'anima della Chiesa, non il suo corpo insomma.
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