Cancellare ogni traccia Ora si può, ma è giusto?
venerdì 29 marzo 2019
Fino a oggi molti erano convinti che tra i mestieri di successo del prossimo futuro ci sarebbe stato quello di «cancellatore di tracce digitali». Ne lasciamo infatti talmente tante, tutti i giorni, che finiamo con il dimenticarci anche di quelle compromettenti, che un domani potranno essere usate contro di noi. Lo credevano fino ad oggi. Anzi, fino all'altro ieri, quando Telegram – il più famoso rivale di WhatsApp – ha annunciato una novità epocale. Cioè la possibilità di cancellare perennemente qualsiasi scambio di messaggi avvenuto sulla sua piattaforma, anche mesi prima. In questo modo si possono far sparire per sempre anche le risposte del destinatario. E non solo sul proprio telefono, ma anche su quello dell'altra persona e sui computer della società. Basta un clic e qualunque cosa possiamo avere scritto di imbarazzante (o di cui, più semplicemente, ci siamo nel frattempo pentiti) sparirà come per incanto. Lo so che su WhatsApp si può fare, ma solo entro un'ora dall'invio del messaggio. Dopo 60 minuti dall'invio tutto resta per sempre. Su Telegram sparisce per sempre.
Anche se è stato annunciato come un servizio per migliorare la privacy degli utenti («Elimina qualsiasi messaggio da entrambe le parti in qualsiasi chat privata, in qualsiasi momento») la portata di questa mossa è ben più ampia. Infrange infatti uno dei pilastri delle «vite digitali». Quello che recita: ogni cosa che fai, lascia una traccia.
Provate solo a immaginare se, a ruota, questa possibilità venisse adottata anche dagli altri servizi di messaggistica come WhatsApp e Messenger. E poi da tutti i social. Chiunque di noi non sarebbe (come ora) solo libero di cancellare i propri post, ma potrebbe far sparire anche qualunque altra traccia digitale.
Pensate a cosa accadrebbe se con un clic potessimo cancellare per sempre ogni nostro errore, ogni nostro sfogo, ogni nostra azione digitale. Per chi cancella sarebbe splendido, ma se guardiamo la cosa immaginandoci come «parte lesa» o anche solo come spettatore vedremmo sparire prove importanti, intere conversazioni, offese e scambi di opinione.
In pochi clic la realtà verrebbe ancora una volta ribaltata e mescolata. «Io? Non ho mai scritto una cosa simile». Con tutto ciò che ne consegue. Già oggi, interi articoli su processi delicati non si trovano più sul web perché sono stati "deindicizzati", cioè cancellati dalle ricerche online su richiesta (a volte legittima, a volte molto meno) degli interessati. Perché il «diritto all'oblio» è sì un diritto, ma quando lede la memoria collettiva (o nasconde un reato) rischia di esserlo un po' meno. Molto meno. Figuriamoci poi se può essere esercitato dai singoli senza nemmeno il bisogno che un tribunale abbia assolto l'imputato o il reato commesso sia caduto in prescrizione. Con un clic – per fare un esempio – intere prove di stalking o di bullismo sparirebbero. Anzi, su Telegram, dall'altro ieri, spariscono già. Per correre ai ripari faremo tanti screen shot degli schermi dei telefonini, fermando quelle conversazioni almeno su delle foto. Ma come faremo a dimostrare che le nostre «prove fotografiche» non siano state manipolate?
Il problema della memoria digitale ovviamente è molto più vasto. Il primo rischio è di avere a disposizione tanti archivi mastodontici ma senza archivisti, cioè senza persone capaci di dare un senso all'enorme mole di dati digitali che produciamo da anni, ogni giorno. Come ha spiegato Jerome Bourdon, della Tel Aviv University, «viviamo nell'illusione di avere tutto online per sempre». Ma non è così. Per questo Bourdon ha lanciato una sfida a ognuno di noi: «Provate a inseguire la storia dell'assenza: chiedetevi cioè cosa non si trova online e perché». Salvare o no alcuni dati significa in qualche modo manipolare la memoria, il ricordo, la Storia. Se a questo si dovesse aggiungere a breve l'estrema facilità con la quale cancellare tracce e documenti online, il problema potrebbe diventare drammatico.
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