venerdì 1 luglio 2016
Ho letto in articoli e interventi recenti di Achille Mbembe, lo storico camerunense che si va affermando come uno dei più necessari pensatori del nostro presente (e sono pochi, nonostante la mole di libri che pensatori per imitazione scrivono ossessivamente, di recita e non di sostanza), una preoccupazione che all'inizio mi è sembrata di tipo fantascientifico, e cioè esagerata (i pochi studi di Mbembe tradotti in Italia sono editi da Meltemi e Ombre corte, ed è anche questo un segno della superficialità della cultura proposta massicciamente dalla nostra editoria maggiore). Più tardi, riflettendo sulla concretezza delle esperienze che si hanno intorno, non le nostre ma quelle per esempio degli immigrati e dei profughi, dei «dannati della terra» di oggi e proprio di oggi, del quadro del futuro più prossimo delineato da Mbembe ha cominciato a ossessionarmi una osservazione centrale: un mare di persone sono, per sopravvivere, disposte a darsi in servitù a chiunque avesse bisogno della loro forza-lavoro, e però siamo entrati o stiamo entrando in un mondo in cui non si ha più bisogno di loro, per le mutate condizioni dell'economia e del lavoro. C'è, e cresce, un mercato degli schiavi che nessun padrone vuole comprare! Ho pensato allora alle considerazioni lontane di un maestro della fantascienza, Kurt Vonnegut, che (mi sembra in Comica finale, Eleuthera) previde una società dove darsi schiavi era l'unico modo per sopravvivere, e anche di deresponsabilizzarsi: dove insomma lo stato di schiavitù diventava qualcosa di positivo per gli schiavi, migliore di quello della lotta per l'esistenza in un mondo atrocemente violento e classista. C'era qualcuno che pensava per noi, che ci amministrava e ci comandava e che però si preoccupava della nostra vita e salute, del nostro star bene magari per poterci sfruttare meglio. Darsi schiavi di qualcuno era un'ancora di salvataggio in un mondo di assoluta insicurezza. Tutto è relativo, diceva Vonnegut, buon lettore di Darwin ma di salda cultura protestante, e potrà persino darsi che si possa essere felici (sicuri) in uno stato di schiavitù invece che di libertà, se il libero arbitrio perde di senso davanti a scelte estremamente limitate… Vonnegut era maestro in paradossi sconcertanti, che mettevano in discussione i nostri luoghi comuni. Uno di questi, il più paradossale di tutti, della felicità nella schiavitù, è superato dalla storia contemporanea, dalla mutazione che Vonnegut non ha fatto in tempo a vedere: si sta entrando in un mondo che non ha più bisogno di schiavi, sono troppi e superflui, dove l'idea stessa del lavoro è mutata e dove la macchina ha il sopravvento. Un mondo, per restare alla fantascienza, che è più vicino a quello previsto da Jack London nel Tallone di ferro (Feltrinelli) che non a quello di Vonnegut.
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