giovedì 17 maggio 2007
Soltanto una cosa è più lugubre dell'uomo che mangia solo; ed è l'uomo che beve solo. Un uomo solo che mangia somiglia a un animale alla mangiatoia. Ma un uomo solo che beve, somiglia a un suicida. Le vediamo tutti quelle persone che mangiano da sole in un ristorante, col giornale a lato, senza sentire i sapori o badare alla quantità o meno del cibo. Ma nelle stesse nostre famiglie, anche se si è seduti insieme alla tavola, col televisore acceso è come se ognuno si nutrisse in un angolo, proprio secondo la norma di chi vive da solo. Quel famoso cultore della gastronomia che è stato il magistrato francese Anthelme Brillat-Savarin nella sua Fisiologia del gusto (1825) giustamente osservava che «gli animali si nutrono, l'uomo mangia, il sapiente pranza». Se si mangia da soli si ingurgita qualcosa facendo altro, senza quel rito che è legato al vero pranzo, senza i suoi ritmi, le sue parole, i dialoghi, le attese. Ma c'è qualcosa di peggio del nutrirsi solitario ed è il bere, come osserva lo scrittore fiorentino Emilio Cecchi (1884-1966) nel passo che abbiamo scovato nell'opera dal titolo emblematico L'osteria del cattivo tempo. In chi si ubriaca nell'angolo di un bar c'è, infatti, qualcosa di tetro. Quell'abbruttirsi progressivamente attraverso le nebbie dell'alcol è veramente qualcosa di simile al suicidio. Se l'ubriaco in compagnia è solo ridicolo o stupido, chi si brucia senza speranza attraverso un bere solitario rivela una tragedia, una infelicità e un isolamento insanabili. Simile a questo è l'atteggiamento di tanti adolescenti e giovani che - anche se in massa - si ubriacano in modo lugubre; la loro sguaiatezza è disperazione, il loro branco è solitudine, il loro bere è un accecarsi.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: