domenica 14 agosto 2011
Non le è mai capitato di sentirsi sola, davvero sola, cioè sola con l'assoluta certezza, la certezza fatta sangue e respiro, che non ci sia nessuno in tutto il mondo, in tutto l'universo che le voglia bene? Nessuno che abbia voglia di guardarla e guardandola la carezzi con gli occhi?


Sotto il sole incandescente del ferragosto, in un anonimo caseggiato di città, con le tapparelle abbassate e in un bagno di sudore, una persona è là, davanti al telefono: c'è una speranza residua, quella che qualcuno si ricordi di lei e faccia uno squillo. E invece il telefono, il campanello di casa, le stesse vie deserte tacciono. Forse in questa scena si riconosce anche qualche nostro lettore: è un anziano o un malato o uno straniero o semplicemente uno che ha perso tutti o è dimenticato da tutti. Nessuno lo chiamerà né oggi né domani. Nessuno avrà un fremito d'amore; nessuno stenderà una mano per fargli una carezza.
È, questa, anche la scena che regge uno dei bellissimi, intensi, dolenti racconti della raccolta E nessuno si accorse che mancava una stella di Antonio Debenedetti (Bur 2009): un vecchio, Osvaldo, che ha appena perso sua moglie, in un agosto infuocato, sente il peso insopportabile della solitudine e allora scrive una lettera-confessione alla giornalista che tiene la rubrica La posta di un giornale. È quasi un estremo SOS che, però, è votato al silenzio e a un esito di desolazione immensa: «Una volta finito di scrivere, il vecchio guarda la lettera senza rileggerla. Poi la strappa e scoppia in lunghi singhiozzi senza lacrime, dal suono simile al latrare di un cane». Non ho considerazioni oggi da proporre: lascio solo che i miei lettori immaginino quella scena e provino un brivido che attraversi la loro festa, la compagnia degli altri, il pranzo. E forse prendano in mano il telefono per dire poche parole a una persona che è come Osvaldo.
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