giovedì 13 aprile 2023
Sull’autostrada che da La Spezia sale al Passo della Cisa anche questa mattina il tempo cambia: sole in Liguria, ma qui sull’Appennino si impigliano nuvole gonfie, grigie. La vegetazione è ancora spoglia, bruna, gli alberi hanno appena un accenno di gemme. L’autostrada sale. Dal finestrini aria tagliente, in mezz’ora è tornato l’inverno. Poi, maestoso, l’Appennino ridiscende verso Parma. È severo l’orizzonte, quasi segnasse un confine fra mondi: il mare laggiù con le mimose in fiore, e la grande pianura, pallida in un’incerta primavera. E sì, ogni volta sulla A15 è come se passassi una frontiera. La stessa cui un tempo, lassù alla Cisa, si fermavano i muli stanchi, e in una locanda si mesceva il vino ai viaggiatori. Ma, tutto questo è passato. Oggi sull’autostrada si sfreccia a 130 all’ora. Seguo con gli occhi le onde dell’Appennino. Terra dura: di qui in quanti partirono per l’America, per le miniere del Nord Europa. La mia nonna paterna, ragazzina, andò cameriera a Parma. Un suo fratello, a New York. La loro casa doveva somigliare a queste cascine arrampicate sui bricchi. Chissà che freddo d’inverno, chissà che fame, in sei fratelli. Ma anche tutto questo è passato: e sembra, anche se sono poco più di cent’anni, irrimediabilmente perduto. Verso Berceto guardo più attentamente. Cerco con gli occhi, da tanti anni, una casa che, se c’è ancora, è in mezzo a una radura, nel fitto del bosco. Perché in una lettera ingiallita trovata in un cassetto alla morte di mio padre ho letto di un giorno d’estate, di quando lui era un ragazzo. Raccontava ad Anna, la mia futura madre, di luglio bollente su Parma, e di una corsa in bici, all’alba, fino a Corniglio. Ho letto e ho risentito il caldo di quel luglio remoto, e il sudore addosso, e la fatica sui pedali. Semplicemente un ragazzo in gita, solitario, estate 1939 – lui non sapeva su quale vertigine si affacciava il mondo, e il suo stesso destino. Dunque mio padre, si legge nella lettera, si inoltra a piedi ora per i sentieri erti di Corniglio. Non fa, col fiato dei vent’anni, fatica. La luce chiara del mattino filtra tra le foglie, ne rivela trasparente la trama. Fruscii dai nidi, richiami di uccelli che cercano una compagna. Lepri: per un istante paralizzate alla vista di un uomo, subito fuggono nella boscaglia. More, forse, dai cespugli spinosi, dolci in bocca? Il bosco del mattino traversato dal sole è una promessa: tutto ciò che è atteso, sarà. Il ragazzo cammina a lungo, assorto. A un bivio è incerto, quale sarà il sentiero? Sembrano, le due vie, uguali. Ma il sentiero scelto ora scende, si fa scosceso e stretto, si perde nel sottobosco. Il sole, intanto, dallo zenit prende a calare. Che gran silenzio. Il ragazzo risale, ha sete e gli resta poca acqua. Si è perso, però è certo di ritrovare la strada. Com’è grande però il bosco, e già si avvicina l’imbrunire. Ora i fruscii attorno sono meno amichevoli, faine, volpi occhieggiano, forse anche lupi?
Il ragazzo si sente stranamente disorientato: incerto del presente, e di colpo pauroso del futuro. Come sospeso sul vuoto, in una sera del luglio 1939. È quasi buio quando scorge del fumo che sale da un camino: una casetta di pietra, sola nel bosco. Bussa, gli apre la porta una vecchia. «Ti sei perso?» domanda amichevole in dialetto, poi lo invita a sedere, gli porge del pane. «Dormi qui stanotte, ripartirai domani». Una accogliente vecchia madre, contenta di avere ancora, per una notte, un figlio. La mattina mio padre scese a valle. Molti anni dopo volle tornare a quella casa, ma non seppe più ritrovarla. Ora dall’autostrada la cerco ancora io, con gli occhi. Sarà in rovina? Ed esisteva, poi, veramente? Il rifugio per un ragazzo smarrito, oppresso da un’ansia oscura in una notte dell’estate 1939. (E come vorrei quel rifugio, quella madre, trovarli io, ora). © riproduzione riservata
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