Se la buona notizia sulla Nigeria non fa rumore
Le minacce "disinteressate" di Trump sulle persecuzioni hanno fatto dimenticare che duecentotrenta piccoli ostaggi cattolici, rapiti a scuola dai criminali, sono in qualche modo stati liberati

La notizia è di quelle che non fanno notizia perché è positiva. Ed è scivolata via tra le mille cose quotidiane che avvengono fuori dall’Italia e di cui non se ne parla. La scorsa settimana un centinaio di ragazzi nigeriani della scuola cattolica St Mary sono tornati a casa, dopo essere stati rapiti nella notte del 21 novembre da un commando di uomini addestrati a questo tipo di operazioni. Questa mattina, altri 130 sono stati liberati. Duecentotrenta, dei 303 studenti (i più piccoli non hanno che sei anni e sono all’inizio del percorso scolastico) trasformati nella notte del blitz in “bottino” dai sequestratori che hanno colpito il dormitorio nel villaggio di Papiri a decine di chilometri della capitale Mina dello Stato nigeriano del Niger. Altri cinquanta ragazzini erano riusciti a fuggire durante il trasferimento degli ostaggi in un luogo sicuro subito dopo l’attacco. Tutti, quindi, sono stati liberati.
Fin qui la notizia che non fa notizia. I media anglofoni hanno invece esaltato la Joint Task Force, immediatamente creata dal presidente Bola Tinobu con elementi dell’esercito nigeriano e dell’intelligence Usa. Una risposta palese alle minacce (mai concretizzatesi) del capo della Casa Bianca che si era detto “pronto a colpire i terroristi che perseguitano i cristiani”. Il fenomeno delle persecuzioni dei cristiani, soprattutto negli Stati settentrionali del gigante africano, si è rafforzato sempre più già dai tempi della dittatura di Sani Abacha finita nel 1998 con la sua morte e la elezione, un anno dopo, del primo capo dello Stato cristiano: Olosegun Obasanjo.
Ciò significa che comunque, anche se con scarsi risultati soprattutto ai tempi dell’ondata di Boko Haram, il terrorismo mascherato spesso da persecuzione, in qualche modo si è tentato di contrastarlo. Ora la situazione, affermano tutti gli esperti internazionali, è diversa. L’arcivescovo di Sokoto, monsignor Mattew Hassan Kukan, due settimane fa ha affermato a chiare lettere che “in Nigeria non c’è persecuzione di cristiani, perché lo dicono i numeri”. (Va ricordato a quanti anche in Italia, compresi media di nicchia, sposano le tesi di Donald Trump che ha ben altri scopi, che Sokoto è il califfato in cui il sultano è la massima autorità dei musulmani di Nigeria).
Se non bastasse una settimana fa un rapporto della Sbm, tra le massime società di intelligence di una nazione che conta poco meno degli abitanti degli Stati Uniti, ha certificato - distinguendo tra massacri etnici e per il controllo della terra e le persecuzioni religiose - che quella dei rapimenti è invece diventata “un’autentica industria con un introito tra il giugno dell’anno scorso e il luglio di quest’anno, di 1,66 milioni di dollari”, un’immensità di denaro se raffrontato al reddito pro capite inferiore ai tremila dollari.
E anche nel caso della St Mary’s i media nigeriani parlano di “richieste e pagamenti di riscatti”. I parenti sono arrabbiati con il governo che li ha “totalmente tenuti all’oscuro”, mentre il presidente Bola Tinobu nega tutto. Una situazione vista più volte, anche per decine di commercianti e sacerdoti sequestrati soprattutto nella regione meridionale del Delta, a maggiorana cristiana. Negare che i cristiani siano vittime di azioni deliberate, soprattutto da parte di gruppi jihadisti sopravvissuti alle profonde trasformazioni di Isis e Boko Haram, sarebbe non corretto. Come però non sembra altrettanto corretto, al massimo livello di potenza mondiale come di altri movimenti, attribuire il marchio di persecuzioni deliberate a fatti come quelli di Papiri a persecuzioni deliberate.
La saggezza popolare li chiama “banditi”, il governo nega che ci sia insicurezza. Ma in mezzo ci sono uomini, donne e bambini che senza soluzione di continuità sono passati, dalle decimazioni nei villaggi da parte dei terroristi votati o costretti al jihad, a una criminalità che trova facili reclute nella povertà di un Paese che è il primo produttore di petrolio in Africa.
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