«Il suicidio è sconfitta, valutino commissioni medico legali regionali»
Monsignor Pegoraro, presidente della Pontificia accademia per la vita. «Non basta un comitato nazionale, occorre discernimento. L'esclusione del servizio sanitario nazionale può creare derive»

«Prossimità e discernimento per evitare una deriva nella tutela della vita che è alla base del rapporto medico-paziente». È questa la principale raccomandazione che rivolge al legislatore monsignor Renzo Pegoraro, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, dalla quale ne discendono, in concreto, altre tre. Rendere davvero accessibili a tutti le cure palliative, per offrire un efficace trattamento del dolore e della sofferenza e consentire così un reale discernimento sulle decisioni da prendere. Valutare attentamente, poi, se l’esclusione del Servizio sanitario nazionale dalla normativa non rischi di produrre effetti contrari a quelli che ci si ripropone di realizzare. No, infine a un Comitato etico nazionale. «C’è già un comitato nazionale di bioetica», ricorda Pegoraro. Mentre, proprio per garantire prossimità e discernimento, «potrebbe essere opportuno dar vita a delle commissioni medico-legali su base regionale».
Ma intanto si continua a invocare un diritto al suicidio che l’ordinamento esclude e la Consulta non chiede di introdurre...
È bene precisare che non è in discussione la riconferma dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio come reati, si sta discutendo solo dell’introduzione, sulla scorta della sentenza della Corte Costituzionale, di una depenalizzazione dell’aiuto al suicidio quando ricorrono le ben note quattro condizioni poste dalla Corte: malattia incurabile, sofferenza insostenibile, dipendenza da sostegni vitali e piena capacità di intendere e di volere.
Una casistica in larga misura originata dall’evoluzione delle tecnologie e della scienza. Il Magistero della Chiesa cattolica da tempo condanna però l’accanimento terapeutico. Come discernere?
Finora in Italia il problema si è posto soprattutto in relazione a casi di sclerosi laterale amiotrofica, o di sclerosi multipla, o di tetraplegia post-incidenti. Di fronte alle singole situazioni solo un rapporto diretto medico-paziente, che coinvolga le famiglie, può consentire un vero discernimento. Solo in una condizione di relazione diretta e di ascolto si può valutare la sussistenza o meno dell’accanimento terapeutico, che nell’enciclica “Evangelium Vitae” del 1995 viene configurato in relazione ai soli casi di trattamenti «sproporzionati», in riferimento ai quali «si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato».
Fra queste, evidentemente, rientrano anche le cure palliative...
Sicuramente: perché questa valutazione non risulti influenzata ideologicamente debbono essere rese disponibili le terapie del dolore e, ove necessario, anche la sedazione palliativa profonda. Solo in questo modo si può venire concretamente incontro al bisogno del paziente.
Lei ha detto che l’aiuto al suicidio è una sconfitta per tutti.
Lo è per il paziente che rinuncia al suo diritto a vivere, lo è per il medico, che viene meno ai suoi principi deontologici. Per questo va valutato ogni caso attentamente, evitando che si consideri il suicidio una soluzione ai problemi delle sofferenze del paziente.
Un solo Comitato di valutazione nazionale non è insufficiente per rispondere allo scopo?
Bisogna distinguere i livelli. C’è un livello di valutazione etica che in alcune Regioni (Veneto, Toscana) si attua con i Comitati etici per la pratica clinica, che esprimono pareri non vincolanti e aiutano a comprendere e analizzare la singola situazione. Ma si potrebbe considerare l’istituzione di commissioni medico-legali a livello regionale che valutino le condizioni richiamate dalla sentenza della Corte e le eventuali modalità di attuazione del suicidio assistito.
L’esclusione dalla norma del Servizio sanitario nazionale è un errore?
Occorre una valutazione attenta per evitare di reintrodurre dalla finestra ciò che si è escluso dalla porta. Si rischia di affidare queste pratiche a strutture già orientate al suicidio assistito, che sfuggono ad ogni controllo. Se l’obiettivo è non istituzionalizzare queste procedure bisogna attentamente valutare se non si rischia invece, così, di introdurre una deriva di segno opposto.
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