sabato 10 maggio 2025
La comune appartenenza alla famiglia umana spinge papa Leone ben oltre il perimetro ecclesiale e risponde alla teologia del Regno di Dio. L'evangelizzazione ha come fine la comunione
Fedeli peruviani ricordano la missione di Leone XIV a Chiclayo, in Perù

Fedeli peruviani ricordano la missione di Leone XIV a Chiclayo, in Perù - Ansa

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Il testo del primo discorso pronunciato da Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost, dalla Loggia centrale della Basilica di San Pietro è la cartina al tornasole della sua spiritualità missionaria intesa secondo i canoni della teologia agostiniana come “vita secondo lo Spirito” (Discorso 362,14). Questo, in sostanza, significa affermare i fondamenti teologici dell’agire cristiano che trovano la loro sintesi nel saluto iniziale rivolto ai fedeli convenuti per assistere alla fumata bianca: «La pace sia con tutti voi! Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo Risorto, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge di Dio. Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse le vostre famiglie, a tutte le persone, ovunque siano, a tutti i popoli, a tutta la terra. La pace sia con voi!».
Un saluto missionario che esprime un dinamismo rivolto ad ogni genere di alterità nel nome di Dio. Un cristianesimo, dunque, che non si presenta al modo quasi fosse una sorta di “costola dell’Occidente”, ma davvero cattolico, dunque universale annunciato a «tutti i popoli, a tutta la terra». Si tratta della logica conseguenza del pontificato del suo predecessore Francesco: «Il papa che benediva Roma – ha detto – dava la sua benedizione al mondo, al mondo intero, quella mattina del giorno di Pasqua», il giorno prima del suo dies natalis. Una conferma, come leggiamo nei cartigli della sua nuova cattedrale dove si trova la sua cattedra, che Roma è “Mater et Caput”, vincolo di comunione con tutte le chiese dell’Orbe.
In una stagione della storia umana segnata dalle crescenti divisioni tra i popoli, dove imperversano il disordine globale e le diseguaglianze, Leone XIV è consapevole che «Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti, e il male non prevarrà! Siamo tutti nelle mani di Dio». Proprio come ebbe a dire insistentemente Francesco: «Tutti fratelli, tutti sulla stessa barca, nessuno si salva da solo».
La missione di annunciare e testimoniare la Buona Notizia, pertanto, non risponde nelle sue intenzioni alla logica del proselitismo, ma all’affermazione della condivisione superando qualsivoglia impedimento: «L’umanità necessita di Lui come il ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore. Aiutateci (…) a costruire ponti, con il dialogo, con l’incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo sempre in pace». La posta in gioco è alta perché si tratta di ridare senso a un sostantivo – la pace appunto – che è stato peccaminosamente svuotato di significato da una cultura incentrata sui sovranismi o nazionalismi che dir si voglia. Ponti che sono l’esatto contrario dei muri, ponti che uniscono i popoli dichiarando la fraternità universale, globalizzazione perspicace di Dio all’insegna della solidarietà. La missione, in questa prospettiva, non è ecclesiocentrica, ma risponde ai canoni del Regno di Dio. D’altronde, lo indica la parola stessa missione dal verbo “Mittere” (mandare). Essa si fonda sul “Mandatum Novum” affidato agli apostoli per il Regno di Dio che consiste nella presenza di Cristo nella Storia dell’umanità. Il punto di partenza è la comune appartenenza alla famiglia umana, dal riconoscerci fratelli perché figli e figlie di un unico Creatore, tutti bisognosi di prendere coscienza che in un mondo globalizzato e interconnesso ci si può salvare solo insieme. Questa visione si spinge ben oltre il perimetro ecclesiale e risponde alla teologia del Regno di Dio. D’altronde, a pensarci bene, al centro dell’attività missionaria, che peraltro è connaturale alla Chiesa (senza missione – è bene ricordarlo - non c’è la Chiesa), si colloca proprio il Regno così come viene raccontato nei Vangeli.
E sebbene, come leggiamo nell’enciclica di San Giovanni Paolo II Redemptoris Missio, «non si possa disgiungere il Regno dalla Chiesa, certo, questa non è fine a se stessa, essendo ordinata al Regno di Dio, di cui è germe, segno e strumento» (18). Cosa significa? Che il Regno è già presente nel mondo, anche fuori delle nostre comunità. Esso si manifesta nella presenza di Cristo nella Storia umana (che è anche la nostra Storia!), ed è un qualcosa di straordinariamente meraviglioso e avvincente per chi ha avuto il dono di farne l’esperienza come i nostri missionari e le nostre missionarie presenti nei cinque continenti. E tra questi c’è anche papa Prevost.
Una cosa è certa. Proprio perché ha alle spalle un’esperienza ad gentes, il pontefice è ben consapevole che l’evangelizzazione ha come suo fine la comunione e che la mancanza di un sereno e sincero confronto tra i protagonisti della missione rappresenti un impedimento per una più efficace e credibile comunicazione del Vangelo.
Motivo per cui, in una stagione come la nostra segnata spesso da divisioni anche nel tessuto ecclesiale, il ruolo di papa Prevost è un segno di speranza. Il fatto stesso che sia un Papa dalle due nazionalità – statunitense di nascita e peruviana di missione – dice che la missione stessa disegna per lui l’identità della Chiesa e della sua Storia. In una battuta dallo “ius soli” allo “ius missionis”. Tutto questo nella cristiana certezza, come si legge nella sua prima omelia tenuta ieri nella Cappella Sistina: «Urge la missione».

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