martedì 23 marzo 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Se tu domandi a un bambino cosa vuol dire libertà, ti senti rispondere: «Fare quello che si vuole». Per grazia di Dio poi i bambini non fanno tutto quello che vogliono, perché famiglia, scuola, e parrocchia fanno capire loro che si è liberi di fare un bene o l’altro, ma non si è liberi di far il male a sé e agli altri. In pratica quello che si dice generalmente: la tua libertà finisce dove comincia la libertà e il bene degli altri. Non tutti però la pensano così. Riassumo brevemente il fatto che in questi giorni ha fatto molto scalpore. L’ 8 settembre 2006 in una scuola di Torino quattro mascalzoni minorenni picchiano un loro compagno di classe disabile (l’abbiamo intravisto sui telegiornali pochi giorni fa), lo buttano per aria e lo lasciano cadere sul pavimento, mentre uno di loro riprende la scena col telefonino. Poche ore dopo caricano il filmato su YouTube, canale di Google, per far conoscere a tutto il mondo la loro idiota violenza. Filmato che rimane in onda per due mesi, fino al 7 novembre, quando viene rimosso. I quattro bulli, scoperti e processati – dopo la denuncia di un’associazione che difende i disabili – vengono condannati dal Tribunale dei minori a un anno, pena scontata con l’impegno in una cooperativa sociale. In seguito però la giustizia italiana ha allungato lo sguardo anche su tre dirigenti di Google – responsabili di aver lasciato in rete il filmato per oltre 60 giorni – condannandoli a sei mesi di carcere. Il padre del disabile – uomo equilibrato, insegnante di religione in una scuola superiore di Torino – ha accolto positivamente la condanna dei tre dirigenti e ha dichiarato: «Mio figlio ha sofferto molto a causa di quella vicenda. Al di là dell’aggressione subita, è stato molto più duro per lui sapere che il video circolava in Internet per così tanto tempo». Questi sostanzialmente i fatti. La bagarre è cominciata con le reazioni alla sentenza, perché molti vi hanno visto la soppressione di un «diritto umano inalienabile che va tutelato ad ogni costo». Cioè: Internet e derivati (YouTube, Google, Facebook) non si toccano. La loro libertà è sacra. Dunque: un disabile, o un ragazzo qualunque, lo si può molestare, picchiare, maltrattare o addirittura ferire.  Si può perfino mettere il filmato a disposizione di migliaia di persone caricandolo in Internet. Si può calpestare la sua persona, la sua dignità umana, la sua privacy, ma non si può condannare la rete che diffonde il video. Sappiamo che i quattro mascalzoni hanno caricato il loro filmato nella sezione «Video più divertenti» di Google, che è il servizio che guadagna di più – con il raggiungimento di più utenti possibili – favorendo l’aumento della pubblicità (i dati dicono che Google raccoglie l’80% della pubblicità in Europa e il 90% in America). Ancora una volta i soldi. Mentre i quattro ragazzi hanno agito con la stoltezza della loro personalità maleducata e violenta, la rete ospita filmati del genere per guadagnare soldi. Già, oggi ogni decisione pare dipendere da scelte di tipo economico-finanziario. I soldi sono certo uno strumento importante per la nostra vita quotidiana, purché rimangano un mezzo e non il fine di tutta una vita.

don Giancarlo Conte, Piacenza

Sono trascorse un paio di settimane dall’episodio cui lei fa riferimento, caro don Conte, e forse la distanza di tempo consente di considerare con un po’ di distacco la sentenza che ha condannato i due dirigenti di Google. Personalmente mi sono sembrate fuori misura le reazioni della società che, attraverso il proprio portavoce ha lamentato «un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito Internet». Come lei giustamente nota, la libertà non può essere ridotta ad arbitrio. E una realtà economicamente e tecnologicamente strapotente non può pretendere di fare come le tre scimmiette, mentre la reazione è stata esattamente questa: «I nostri colleghi – ha fatto sapere la dirigenza di Google – non hanno avuto nulla a che fare con il video in questione, poiché non lo hanno girato, non lo hanno caricato, non lo hanno visionato». Qui non si vagheggia una censura costrittiva, tale da ridurre pregiudizialmente gli spazi di libertà della rete, prefigurando l’instaurazione del Grande Fratello telematico, ma una vigilanza elementare, a presidio, anche sulla rete, dei diritti umani fondamentali. Non mi pare plausibile che un video del genere possa essere stato online per due mesi senza che alcun navigante l’abbia segnalato con allarme e disappunto in base agli stessi criteri offerti dal medesimo sito («oscenità o pornografia, contenuti offensivi da un punto di vista razziale o etnico, immagini violente, altri contenuti inappropriati per un pubblico giovane»). Se una selezione preliminare appare forse impraticabile – c’è chi ha calcolato che ogni giorno vengono «caricati» più di 3 "anni video" – va assicurata una tempestiva gestione delle segnalazioni di abuso, e questo non mi pare al di là delle possibilità tecniche di Google. Ma soprattutto è la condizione minima perché anche sul web l’esercizio della libertà sia responsabilmente regolato.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI