martedì 11 febbraio 2014
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Caro direttore,
 
verso la fine del 1962 – con prima e unica udienza in Tribunale nel febbraio del 1963, a seguito di remissione della querela – con un gruppetto di amici fui rinviato a giudizio «per oltraggio aggravato, in quanto rivolto a pubblico ufficiale», quale presunto coautore (nel mio caso, non lo ero stato per un complesso di circostanze) di un volantino con cui si muoveva una serie di accuse politiche al sindaco del mio paese (un Comune di poco più di tremila abitanti). L’atto criticato era il bilancio di previsione e la frase incriminata era la seguente, con cui cominciava il volantino: «Un uomo e la sua cricca…». La parola oltraggiosa era «cricca». Se non fosse intervenuta la remissione della querela, avrei rischiato una condanna esemplare per aver osato oltraggiare con l’espressione ingiuriosa «cricca» il sindaco del mio paese. Dal momento che, un mese dopo l’udienza, mio padre, uomo di vecchio stampo, morì improvvisamente, io porto nel mio cuore il dubbio di aver contribuito alla accelerazione della sua repentina dipartita per "crepacuore", dopo avermi visto seduto sullo stesso banco, su cui, nella udienza immediatamente precedente, c’era un accusato di violenza carnale ai danni di una giovane handicappata. Resto, pertanto, inorridito quando sento certe espressioni, amplificate e diffuse dagli attuali mezzi di comunicazione di massa, usate con abbondanza e naturalezza (sfacciataggine?) da presunti esponenti politici, aspiranti governanti del nostro Paese! Espressioni impunite né sanzionate! Quando conosceranno la vergogna e ritroveranno un minimo di dignità e di educazione certi esponenti delle pubbliche istituzioni, governanti e parlamentari, oltre che certi giornalisti? È con siffatti esempi che pensiamo di educare i nostri figli e di costruire per loro un avvenire migliore, degno di essere vissuto? Ha ragione Papa Francesco, quando afferma che, con tali deprecabili comportamenti, rubiamo loro anche la speranza di futuro!
Adolfo Gente, Cisterna di Latina
 
Lei, caro signor Gente, sottolinea con grande efficacia una questione davvero importante. Che si ripropone ciclicamente alle cronache, che si gonfia nelle gole dei personaggi pubblici nelle piazze reali e virtuali, in tv e per radio, che fa mostra di sé persino nei titoli di grandi (o ex grandi) giornali e che non entra di certo per la prima volta nelle riflessioni che proponiamo ai lettori. Il dilagare del turpiloquio è purtroppo un fatto. Siamo allo sdoganamento noncurante di quelle che quando ero bambino si chiamavano "parolacce", di quel linguaggio greve che un tempo veniva definito "da caserma" (luogo di soli uomini, e non esattamente istruiti alla delicatezza) o "da trivio" (luogo di intreccio di strade e di locande, e dunque di liti sulle precedenze, di bevute eccessive, di risse e di altre malefatte). E si fa sempre più pronunciata la tendenza a ridicolizzare i tentativi di resistere a una simile onda. Eppure bisogna farlo. Lei evoca un "perché" decisivo. Il luogo dove viviamo, le nostre relazioni con gli altri, il mondo intero sono come li diciamo. Se li diciamo male, si imbruttiscono, si guastano, si mortificano. Dentro di noi, e intorno. È proprio vero: quando sporchiamo le parole, quando scegliamo con compiacimento (e non più con il sottile disagio che si prova a muoversi sul viscido) la scorciatoia della scurrilità, finiamo per immiserire, anche per questa via, la vita dei nostri figli. Neghiamo loro qualcosa di molto prezioso, una parte dell’eredità comune – il linguaggio e la sua intonazione forte – della quale dovremmo disporre con riverenza e assoluto senso di responsabilità. Anche così si derubano le nuove generazioni della speranza? Certo. Ma mi pare giusto sottolineare che Papa Francesco vira però in positivo l’appello che lei cita e che ha levato in più occasioni al cospetto delle tante storture del nostro mondo. L’invito che il Papa rivolge a tutti, e soprattutto ai più giovani, è infatti diretto: «Non fatevi rubare la speranza!». Se vi leggiamo dentro anche un «non fatevi rubare le buone parole», non forziamo un bel niente. E abbiamo invece noi un po’ più forza per non cedere all’assedio della banalità abbrutente e appiccicosa della volgarità.
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