lunedì 7 novembre 2011
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Hanno superato le guerre e le dittature. Sono sopravvissuti alle crisi economiche e anche a quelle del laicato cattolico. Alle spalle hanno storie ultracentenarie e gloriose. Rappresentano il territorio e ne scrivono le storie. Sono le nuove piazze di paese in cui la gente, che un tempo si incontrava per strada, oggi si confronta e si racconta. Sono i settimanali diocesani, i giornali che dalla fine dell’Ottocento danno voce alla provincia italiana e alle comunità cristiane locali. Oggi questi "fogli" rischiano di ritrovarsi senza futuro. Le norme introdotte nella legge di stabilità, in discussione in questi giorni in Parlamento, prevedono una drastica diminuzione dei contributi statali all’editoria. Se qualcosa non cambierà, i fondi per il 2011 saranno ridotti al 15 per cento dell’ammontare dell’anno precedente. Una vera e propria sciagura per aziende editoriali che già avevano in bilancio queste somme e, su questa base, si sono potute finanziare presso il sistema creditizio. Nell’era della comunicazione globalizzata in cui ogni cittadino è sempre e comunque collegato col mondo intero l’informazione del territorio si vede gravemente compromessa. Sembra un paradosso, invece la situazione è del tutto reale. Reale nella sua drammaticità e anche nel suo possibile verificarsi in breve tempo.Decine di testate delle Chiese locali che in forza  di una legge dello Stato che riguarda i giornali d’idee e non profit vedono attribuirsi briciole di aiuti pubblici (in totale stiamo parlando di 3,7 milioni di euro per circa 70 editori su 189 testate che aderiscono alla Fisc) dovranno fare i conti con una situazione che non era assolutamente prevedibile e che non è giusta. È vero, gli aiuti statali sono invisi all’opinione pubblica che li percepisce come privilegi, persino quando sono orientati – come in questo caso – a garantire al Paese quello che Avvenire ha definito in più occasioni un «almeno decente tasso di pluralismo». Ed è ancora più vero che la gravissima crisi economica in atto impone a tutti un sano realismo. Quello che induce a concludere che la contrazione della spesa pubblica chiede purtroppo sacrifici in ogni direzione e anche il sostegno all’editoria dovrà subire un ridimensionamento, come peraltro sta avvenendo da diversi anni a questa parte. Tale scenario però non giustifica interventi in corso d’opera che mettono a repentaglio decine e decine di aziende e centinaia di posti di lavoro, solo per parlare dei periodici diocesani.Quello che si deve fare, del resto, è noto. E la richiesta antica e corale delle testate di ispirazione cattolica è che si cominci dall’imposizione di regole forti e chiare che non consentano utilizzi fraudolenti della legge o anche solo piccole furbizie. In un momento in cui si parla solo per slogan e pare abbia ragione chi grida più forte, risulta complicato cercare di far comprendere i motivi di una richiesta così allarmata da parte di voci relativamente piccole. E questo è un altro paradosso della nostra epoca sempre più immersa nella valanga comunicativa che spesso fa confusione e non riesce a distinguere il buono dal cattivo. Ma proprio perché le risorse a disposizione scarseggiano è più che mai necessario uno sforzo di comprensione della posta in gioco: non ci si può limitare a interventi lineari che tagliano nella stessa maniera e in ogni direzione. Servono – lo ripetiamo – e da tempo vengono chiesti, interventi selettivi che evitino gli sprechi e premino quelli che meritano. Occorrerà dunque agire con maggiore rigore ed equità nella distribuzione di risorse più scarse, ma non si possono mettere a tacere le voci del territorio con interventi drastici come quelli che si paventano e che non permetteranno a molti di sopravvivere all’emergenza in atto. Un ripensamento è auspicabile. E conforta che lo solleciti anche la lettera con cui, domenica scorsa, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha risposto all’appello firmato da decine di direttori. Il capo dello Stato ha chiesto al governo di «riconsiderare le proprie decisioni» perché il taglio lineare al Fondo per l’editoria rischia di «mortificare il pluralismo dell’informazione».
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