domenica 4 marzo 2012
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In questi giorni si è riparlato di eutanasia per «quei pazienti costretti a una sofferenza insopportabile e senza speranza», come ha scritto qualcuno. Tutto ciò mi porta sempre più a riflettere sulla realtà di persone che, anche in condizione di grave malattia o disabilità, desiderano vivere e affermare il valore della vita indipendentemente dalla condizione fisica. Un’esperienza – di questo si tratta – di speranza quotidiana, che si scontra in modo semplice ma irriducibile con la mentalità dei 'benpensanti', che non tengono conto del valore inestimabile della persona e della vita qualunque ne sia la condizione. Questo significa avallare l’idea che una persona con disabilità è un peso sociale e non sia in grado di dare il proprio contributo alla società e affermarsi. Chiunque, se messo nelle condizioni di poter scegliere liberamente, può realizzarsi. Il tema centrale riguarda quindi l’ambiente dove la persona malata sia libera di agire in una situazione di uguaglianza e di partecipazione alla vita della società. L’essere umano, che ha l’imperativo compito di fornire cura e assistenza a chi ne ha bisogno, deve poter esprimere tutta la propria ricchezza interiore – il meglio di sé – nel relazionarsi a chi soffre per il fatto di portare su di sé il peso, l’affanno, il malessere e la paura della malattia. Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato. Ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita. Una certa corrente di pensiero ritiene che la vita in talune condizioni si trasformi in un accanimento e in un calvario inutile, dimenticando che un’efficace presa in carico e il continuo sviluppo della tecnologia consentono anche a chi è stato colpito da patologie altamente invalidanti di continuare a guardare alla vita come a un dono ricco di opportunità e di percorsi inesplorati prima della malattia. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un 'fardello' passivo, un costo per la società. Si tratta di un’offesa per tutti, in particolare per chi vive una condizione di malattia: questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introducendo nei più fragili il dubbio di poter essere vittime di un programmato disinteresse della società, e favorendo decisioni rinunciatarie. Una società civile non si può costruire su falsi presupposti, perché l’amore vero non uccide e non chiede di morire. "Inguaribile" non è sinonimo di "incurabile". La vita umana è un mistero irriducibile che non può essere descritto dai soli elementi biologici, pertanto non è ammissibile l’idea che una vita sia degna di essere vissuta solo 'a' e "in" certe condizioni. Più di tutto vorrei però soffermarmi sulla speranza, perché è questo in fondo il cuore della sofferenza, ma ancora di più dell’esperienza umana. Non c’è uomo senza speranza, è insita in lui. La circostanza – qualunque essa sia – non è obiezione alla tua felicità ma ne è il tramite: chiunque, anche in una situazione di difficoltà o di malattia, può avere speranza ed essere felice. La speranza poggia sull’incontro con un altro che spera, in lui intravede una possibilità per sé di vivere ed essere felice. Per questo considero la speranza uno strumento di cura, e di vita, bidirezionale: la dai e la ricevi, puoi trasmetterla e averla da chi ti circonda. Nel rapporto tra il malato e chi lo cura la dignità sta nell’occhio del curante, quello sguardo che liberamente si pone sull’altro ci restituisce dignità, come scrive Benedetto XVI. Allo stesso modo lo sguardo di un malato pieno di speranza che guarda chi lo cura riempie di dignità l’altro e l’azione che sta compiendo. Questo ci ha spinto a desiderare e a concretizzare l’incontro con il Santo Padre, mercoledì 7 all’udienza generale, con il suo sguardo, il suo messaggio di speranza, in modo da continuare con tenacia e determinazione il nostro percorso di vita anche con la malattia, la disabilità, la sofferenza. Si tratta di fare memoria reciproca: l’altro c’è, è fonte di speranza, è un fatto presente che deve succedere ogni giorno, soprattutto nella difficoltà. La speranza è ciò che ti fa guardare al futuro poggiando sul presente e su quanto c’è di positivo. Un’idea espressa benissimo da Andrej Rublëv nell’omonimo film di Andrej Tarkovskij: «Lo sai anche tu, certi giorni non ti riesce nulla, oppure sei stanco, sfinito, e niente ti dà sollievo, e all’improvviso nella folla incontri uno sguardo semplice, uno sguardo umano, ed è come se avessi ricevuto la comunione e subito tutto è più facile».
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