martedì 22 luglio 2014
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Le parole per raccontare e commentare l’orrore quotidiano che la guerra a Gaza fra Israele e Hamas ha portato nelle nostre case si sfarinano purtroppo in una disarmante ripetitività. La battaglia casa per casa alla ricerca del fitto labirinto di tunnel sotterranei, gli spaventosi danni collaterali che coinvolgono centinaia di innocenti, pensiamo con strazio alla decine e decine di bambini (spesso colpevolmente coinvolti dal cinico calcolo politico dei dirigenti di Hamas, che queste guerre sanno di poterle vincere solo sul piano mediatico), i lanci di razzi su insediamenti e città israeliane che continuano a dispetto di ogni tregua proclamata anche soltanto per un paio d’ore, gli appelli internazionali finora inascoltati (su tutti quello del Santo Padre) per un cessate il fuoco durevole che metta i contendenti in grado di allestire un simulacro di pace sono la dimostrazione più efficace che la via militare non è quella che può risolvere il pluridecennale problema di Gaza e le relazioni fra lo Stato di Israele e i palestinesi. Non solo, è forte la convinzione in molti settori – non solo liberal – dell’opinione pubblica israeliana che questa guerra, tutte le guerre di Gaza (dall’operazione "Cast Lead" del 2008-2009, a "Pillar of Cloud" del 2012, fino a questa "Protective Edge" di oggi) siano perfettamente inutili e servano soltanto ad accumulare odio e a preparare la prossima insorgenza, il prossimo lancio di missili, accompagnato dalla certezza che l’arsenale di Hamas progressivamente si fa sempre più pericoloso e più sofisticato.Qual è dunque l’uscita da una situazione che grava sulle coscienze di tutti noi? All’inizio del conflitto il premier Netanyahu e il presidente Abu Mazen avevano puntato sull’Egitto dell’ex generale al-Sisi quale mediatore fra le parti, ma il successore di Morsi e di Mubarak finora ha giocato un ruolo ambiguo: liberatosi con pugno di ferro della presenza imbarazzante dei Fratelli Musulmani, l’Egitto ha cessato da tempo di essere uno dei protettori occulti di Hamas, così come la Siria di Bashar al-Assad non è più il generoso elemosiniere della Striscia come un tempo. Risultato, il braccio militare di Hamas rifiuta ogni mediazione che porti l’impronta del Cairo. Rimarrebbe l’Iran, la cui carità nei confronti di Gaza è sempre stata molto interessata: suoi sono i droni e molti dei missili a medio raggio, ma Hamas non li riceve per beneficenza, li paga molto cari. La stessa Turchia – che fino a un paio d’anni fa aveva alte ambizioni di porsi come l’arbitro assoluto della regione – è in pesante rotta di collisione con Israele e con l’Egitto. Né il Qatar e l’Arabia Saudita, finanziatori e in qualche misura grandi protettori di Hamas, paiono in grado di proporsi come ago della bilancia. Quanto all’Europa e alle Nazioni Unite, l’influenza che possono esercitare in questa fase è molto modesta e non va al di là di un catalogo di buone intenzioni. Gli stessi Stati Uniti si tengono prudentemente alla larga dal vivo della questione, magari lasciandosi scappare un tagliente giudizio su Israele, come è accaduto (per caso?) al segretario di Stato John Kerry, che ha ironizzato sulle cosiddette "operazioni mirate" di Tsahal, salvo poi ribadire – ma questa è storicamente l’usuale posizione della Casa Bianca – che Israele ha il sacrosanto diritto di difendersi.Tuttavia nel vorticoso mazzo di leader regionali e internazionali che si affannano per cercare una soluzione alle guerre fra Israele e Hamas ce n’è uno che meriterebbe credito e sostegno, ed è il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. Grave è stato l’errore di Israele nell’emarginarlo e depotenziarne il ruolo negli scorsi anni. Ridurlo a una comparsa priva di poteri effettivi se non in Cisgiordania gli ha impedito finora di assumere quel ruolo guida del popolo palestinese che è l’unico che potrebbe disinnescare il radicalismo di Hamas nella Striscia. Radicalismo che – ricordiamolo – nei Territori è molto più annacquato, grazie anche a una crescita economica e sociale che gradualmente sta creando una middle class palestinese che non crede più nella guerra con Israele. Non sarà Abu Mazen il solo in grado di far tacere il cannone, la sua strada verso una leadership forte è stretta come i pertugi dei tunnel che dalla Striscia portano in Israele, ma a nostro avviso è l’unica realisticamente percorribile. E per questo va incoraggiata.
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